venerdì 15 agosto 2014

FEDIFRAGA


                                                                                                                                                                 

 

 
  Negli anni Sessanta, nel nostro negozio d’ottica gestito da Vito e mamma, entrò un'attraente signora. Portò a riparare un occhiale da sole con una lente rotta. Dai complimenti di mio fratello e dalle lusinghe che la donna smorfiosamente accettava, mia madre ne fiutò il pericolo.  
 La conferma arrivò tre giorni dopo quando la signora venne a ritirare l’occhiale. Alla richiesta di quanto dovesse, mio fratello sorridendo rispose:
 - Cinque lire.
 - Come mai così poco? - chiese con stupore quella quarantenne.
 - È ciò che mi è costata la lente tanti anni fa. -  e aggiunse  - E poi, è un onore per me e per il  negozio servire una come lei.
  E dopo una leccata del genere, mia madre ch’era presente divenne verde, rossa e anche viola. Assunse tutte le sfumature dell'arcobaleno per reprimere quello che le era salito sulla punta della lingua.
 Il giorno stesso e prima di pranzo, ancor livida di rabbia, mamma me lo raccontò. Era un continuo piagnucolare per il prestigioso incasso e per non averle fatto pagare almeno il lavoro. Rivolgendosi a me ripeteva:
 - Gò en fiol che l’è mia normale e che ghe pias le vecie troie. E po’, set cosa la gha dit quela bruta vacca prima de andar fora? “ Ci sentiamo!” e l’ha did con la voia de vederse da qualche altra parte. E l’è anca sposada!(1)
 Durante tutto il pranzo continuò con le sue lagne, mentre mio fratello se ne restava muto. Solo una volta arrischiò di giustificarsi:
 - Quella signora ha molte amiche capricciose e spendaccione.
 - Tutte vecchie troie (2)che vanno in giro per farsi regalar qualcosa! - rispose mamma chiudendogli la bocca.
 Dopo un paio di settimane e di lunedì mattina, che è il giorno di riposo del negozio, mio fratello uscì dal bagno sbarbato, profumato, e con l’aria felice di chi sta per toccare il cielo:
 - Tieni pure la macchina: stamattina viene a prendermi una signora in Mercedes . Mentre ti farai una bella sega (3), io consumerò un succoso adulterio. Sai com’è: piaccio... piaccio molto! 
 Tronfio e con l’aria soddisfatta inforcò la bici e uscì. 
 A pranzo e verso le tredici e trenta, quando i piatti erano ormai freddi, arrivò una sua telefonata. Mi ordinava di raggiungerlo in negozio e di portargli calze, pantaloni, camicia e maglia, pregandomi inoltre di non dir nulla a mamma. Usai una capiente ventiquattrore, raccontando che la portavo in negozio per riempirla di documenti e fatture che Vito con urgenza doveva sistemare. 
 Le serrande erano abbassate. Bussai alla porta e venne ad aprirmi. Mi si presentò mentre si asciugava faccia e capelli. Tutto l’abito sul davanti era spruzzato di fango: cravatta camicia e giacca erano a pois, e le macchie grigio perla s’intensificavano e diventavano più scure e più grosse scendendo verso il basso, dove il fondo dei calzoni e le scarpe erano d’un bel color terra.
 Scoppiai a ridere, e consegnando la valigetta: - Cos’è?... una ricompensa? Ho capito: è stato il marito a ritornarti il fango che gli hai gettato addosso.
 - Non far lo sciocco! Hai portato tutto quello che t’ho chiesto?
 Erano finiti in un campo e, quando ci fu da venir via, la macchina rimase bloccata in un sentiero con della mota, e non si muoveva d’un centimetro. Anzi, sprofondava sempre più. Vito era sceso dall’auto e con le mani a volte sul cofano anteriore e altre su quello posteriore cercava di spingere mentre la signora accelerava. Le ruote slittando nel fango e lo spruzzarono. Dovette recarsi nella cascina più vicina e cercare l’aiuto del contadino e del suo trattore. Di tutta la faccenda sembrava che gli bruciassero di più i commenti e le risate del contadino che da vero villano non si sapeva trattenere.
  Mentre si cambiava, ridevo di cuore pensando da buon fratello alla giusta punizione per il suo comportamento borioso e irriverente ancor prima d'aver portato a termine quella sua avventura.
  Ma la faccenda non finì solo lì. Vito, portando i vestiti in lavanderia, s’era dimenticato di dire alla proprietaria che sarebbe andato a ritirarli di persona, e così gli abiti arrivarono in negozio con il conto quando c’era mia madre.
 Figuriamoci! Per più d’un mese mamma mi tormentò. Non avendo visto gli abiti prima che finissero in lavanderia, si avviliva non sapendo cosa gli fosse capitato. Era molto preoccupata: voleva sapere se Vito era finito in un fosso o avesse litigato con qualcuno, e, ignorandone il motivo, non si dava pace.
  Un po’ prima di questo fatto io ne avevo appena combinate un paio delle mie. Avevo rotto il deflettore della macchina d'un mio amico mostrando il culo a due attraenti e stupite signore alla guida d'un'auto sportiva. E una settimana dopo, avevo pisciato abbondantemente insieme ad altri sulle maniglie della stessa auto.
 Tutto questo raccontò mia madre a una nostra parente che l’aveva incontrata per strada e che l’aveva fatta salire in casa. Si lamentava di quanto le costavamo, arricchendo la narrazione di particolari inediti che la fantasia le suggeriva.E non si dava pace perché non sapeva cosa significasse spillaccherare, un termine che aveva usato la proprietaria della lavanderia, e che non ne aveva chiesto il significato per non far la figura dell'ignorante. Io ero alla scrivania nel piccolo studio con la porta aperta, senza che mamma lo sapesse.
 Più che con mio fratello, se la prendeva con me, per il fatto che non studiassi. Non ne potevo proprio più di sentirmi rigirare il coltello nella piaga. Mi preparai a uscire. Con una caramella addolcii l'alito. Mia madre aveva appena finito di dire:
 - Quel lé el me custa anca quand el pisa.
 Che all'improvviso, facendo a entrambe andar il caffè di traverso, mi presentai  sorridendo sullo stipite della cucina. 



 

 

  1. Ho un figlio che non è normale e che gli piacciono le vecchie sporcaccione. E poi sai cosa ha detto quella brutta donnaccia prima d’andar fuori? “Ci sentiamo” e l’ha detto con la voglia di vedersi da qualche altra parte. Ed è anche sposata.
  2. Prostitute.
  3. Masturbazione maschile.
  4. Quello lì mi costa anche quando piscia.

 

 

venerdì 13 giugno 2014

LE TELEFONATE DI ELENA.


Non sono mai stato un gran chiacchierone al telefono, forse perché non mi trovo a mio agio parlare con chi non vedo in faccia. Se poi mi capita di dover registrare qualcosa sulla segreteria telefonica mi riesce a impiastricciar perfino le parole. Che siano solo questi i motivi per cui provo antipatia per chi ci sta delle ore?
  Tra i più sciocchi che si perdono al telefono, annovero chi, andando in scooter, in auto o mentre si fanno trascinare da cani che sembrano vitelli, continuano a comunicare come se niente fosse. Ridicoli e demenziali sono poi quelli che chiacchierano per strada attraverso gli auricolari. Sembrano dei folli che parlano per loro conto. Ma cosa avranno di così urgente e d’importante da dirsi?
 Ora sono in pensione, e di mattina rimango in casa a studiare oppure perdo il mio tempo davanti al pc. Mi capita spesso d’essere solo a ricevere le telefonate di quelle seccatrici che ti propongono offerte vantaggiose sull'energia e sulla telefonia, ma non basta, ci sono anche quelle delle amiche di mia moglie. Tra le più frequenti e come tremenda chiacchierona annovero una certa Elena. Forse perché in casa sua non l’ascolta più nessuno ormai, e allora si sfoga con Teresa e, quando non la trova, è costretta a dialogar con me. E sorpresa delle sorprese: s’è rivelata ancor più simpatica di come l'avevo considerata le prime volte.
Tempi addietro ci si scambiava, oltre ai saluti, solo le nuove barzellette oppure qualche allusione grassoccia, mentre per lamentele e guai le passavo subito mia moglie. Ciascuna delle nostre famiglie ha tre figli, e ce ne son così tante da raccontare da passarsi via. Delle mezzore durano le loro ciacole.(1) Il bello è che, quando si lasciano, scordano sempre qualcosa, a volte addirittura il motivo per cui avevano telefonato.
 Un paio di settimane fa, ho ricevuto una sua telefonata dove mi narrava che, mentre si trovava a far la spesa nel reparto orto fruttifero d'un supermercato, aveva fatto la conoscenza di un’amica di Franca. Mi raccontava che questa sua nuova conquista di nome Carla è una signora molto interessane. In pensione, belloccia, dall’aspetto giovanile e che, per non annoiarsi, viaggia continuamente attorno al mondo. Da simpaticona qual è, la intrattiene con un sacco di episodi piacevoli, difficile quindi liberarsene. Tra l’altro, in un momento di scoramento le ha fatto una confessione piuttosto intima e al tempo stesso divertentissima.
 Raccontava che aveva messo alla porta il suo ultimo compagno. Sentitene il motivo,  e poi ditemi se non c'è da spanciarsi.
 Carla mentre palpava dei cetrioli:
- Almeno questi sono duri. Lo so che ci si abitua a tutto, ma quando è troppo, è troppo. Odio il mollo; e tenerlo in mano tutta notte senza poterne usufruire è un vero peccato. Ho lasciato l’ultimo mio compagno perché alla mattina  mi trovavo con il braccio che mi faceva un male boia. Non ce la facevo proprio più!  
 Dopo questa uscita, si guardarono negli occhi e si misero a ridere, a ridere come matte, tanto da far voltare tutti i vicini. Elena subito dopo aggiunse:
- Chissà cosa avrà pensato la gente nel vedere due donne sulla sessantina di cui una impugnava un cetriolo e ridevano in quel modo. Infatti, alcuni curiosi si erano già avvicinati per veder meglio cosa avesse di speciale quel cetriolo. Come Carla s’accorse di ciò che teneva in mano, lo gettò nella cesta come se scottasse. Mamma mia, che figura!
 Capisco che sono pettegolezzi da donnette, ma almeno ingrassano e rendono la vita più gioiosa di quanto non lo sia. In fin dei conti, questi non sono altro che piccoli episodi di vita quotidiana, anche se sono considerati merce da salotto.
 Ci furono altre occasioni per parlare di quella dama. Una delle ultime è talmente esilarante che non posso far a meno di raccontarla. Elena intessendo altri elogi, esordì con un:  
 - No! Non mettere giù! Ascolta quest'ultima.
 - Son tutto orecchi, - sebbene fossi stufo di ascoltarla.
 - Questa mia nuova amica nei suoi viaggi o nelle crociere viene avvicinata da tanti uomini, e in gran parte da quelli sposati. Nei primi approcci, raccontano della loro vita d’inferno in famiglia. Odiati e sfruttati dai figli, vessati da mogli noiose che non amano più e verso cui  non provano alcuna attrazione. Sono talmente ridotti male che si sentono già morti prima ancora d'essere sepolti. Poche sono le varianti a questi discorsi e, press’a poco, sono tutte storie più o meno simili. A cena, in un famoso ristorante con un bell’uomo, non potendone più dei suoi pianti gli disse:
 - Piantala! Te lo dico chiaro e tondo, e non te lo ripeto più: non è necessario che ti spremi le meningi nel raccontarmi certe balle(3), nel vano tentativo di conquistarmi. Tanto, ho deciso di dartela lo stesso!(4)
 

 

  1. Chiacchiere.
  2. Risata sguaiata.
  3. Bugie 
  4. Di concedermi lo stesso.
 

 

 

 

 

mercoledì 19 marzo 2014

DAL PRETE PER LA LICENZA DI MATRIMONIO


 
 - Sei di Cremona vero? Anche se non ti ho mai vista prima, dimmi che sei di Cremona!
 Queste erano state le parole di mio fratello nella lontana primavera del Sessantasette.
 Percorrendo Corso Garibaldi e diretto in centro, aveva incrociato una gran bella ragazza di colore, di quel bel colore vellutato e abbronzato che hanno le ragazze dell’America Latina.
 In Cremona, che a quel tempo contava meno di sessantamila abitanti, s’era visto fino allora un solo moretto che correva per le vie. Era un boxer che s’allenava in una palestra cittadina avendo scelto come maestro un vecchio e glorioso atleta cremonese ch’era stato campione italiano in quello sport.
 Se fosse stata una delle nostre ragazze, come pretesto per attaccar bottone (1), poteva domandare il nome d’una via, dove si trovava una certa chiesa, addirittura la strada più breve per arrivare al museo e, visto che non gli mancava la fantasia, perfino la ricetta d’un dolce, pur di farla sorridere. Ma a quella bella moretta che altro poteva chiedere?
 Sorridendo, la ragazza rispose che era di Panama, che studiava a Bologna e che si trovava a Cremona ospite d’una amica.
 Fin che rimase nella nostra città, mio fratello riuscì a portarla più volte a cena a San Boseto in provincia di Parma, dove allora si magnificava uno dei ristoranti più famosi d'Italia. E la notizia si sparse in città. Tutti i giovani ruffiani venivano a complimentarsi con Vito per la favolosa conquista, mentre alle spalle sparlavano che scialacquava in cene e fiori a ogni loro incontro. Andò poi a trovarla più volte a Bologna e, in agosto, passarono le ferie a Parigi e a Madrid. Una vacanza milionaria. Basti pensare che negli aeroporti, per affrontare le attese, s'intrattenevano con ostriche e champagne, grazie anche a un mio congruo finanziamento che mi lasciò a secco. Al ritorno, la ragazza si trasferì per alcuni mesi a Losanna da una sua cugina sposata a un giovane promettente alto funzionario di banca.
 Vito dava i numeri: avvicinava le lontananze. Non solo sospirava ma volava, e ogni quindici giorni saltava da un aereo all'altro inseguendo il suo amore a Losanna o in qualche altra città europea, dove, come ospite, andava a trovare delle amiche che lavoravano nel campo della moda o in qualche spettacolo. Aveva proprio perso la testa, conquistato dal fascino esotico, dal portamento signorile e dalla bellezza di quella creola. Stanco di soffrire e di rincorrerla tra un aereo e l’altro,le chiese di sposarlo. Itza accettò. Mia madre, dopo qualche smorfia, si sciolse in lacrime: era il primo che lasciava il nido. Si sarebbero sposati in agosto a Panama, mentre con mamma avevo ricevuto il compito di portare avanti il negozio per un mese e più.
 Per completare gli incartamenti di matrimonio, un paio di amici dovevano recarsi dal nostro parroco per rispondere ad alcune domande e firmare certe carte che la curia d’oltre Oceano richiedeva. Mio fratello scelse Bigio e me. Ci recammo dal parroco di Sant’Ilario alle undici d’un mattino piovoso. Entrai per primo. Come mi vide, il prete mi chiese subito come mai non frequentassi la parrocchia. Gli spiegai ch’ero legato all’oratorio di San Luca e che mi sarebbe stato impossibile staccarmene. La seconda domanda fu tremenda:
 - Ho appreso con piacere che tuo fratello si sposa, l'hai mai visto fornicare?
 Ripresi fiato: - A dir il vero, no!
 - Credi che sia in grado di poterlo fare?
 - Per il suo bene, spero proprio di sì!
 - Ha avuto altre ragazze con cui è uscito?
 - Dire abbastanza è una limitazione. Quelle non sono mai abbastanza.
 - Visto che fai lo spiritoso, hai altro da aggiungere?
 - Se lo vuol proprio sapere, a volte, occupa il bagno un po’ troppo a lungo e credo che si faccia delle seghe(1) . Pardon!... Commetta degli atti impuri!
 - Dammi la carta d’identità! -  con l’aria seccata. E mentre copiava i dati mi chiese che lavoro facessi.
 Firmai le carte e uscii. Mi trovai di fronte Bigio che sorridente con lo sguardo m'interrogava.
 - È tutto tuo! - socchiudendo gli occhi, storcendo la bocca e accennando con il capo la porta.
  E lui: - Com’è andata?
  - Te lo racconterò un’altra volta: devo proprio scappare, altrimenti arrivo in ritardo a scuola e il preside mi tira per la giacca.
 Si può dire di tutto su casa nostra, ma di sicuro non ci si annoiava, visto che le novità entravano anche dalle fessure.
Mio fratello era al corrente di tutto quanto; però, per farmi quella gradita sorpresa, non mi aveva preavvisato. Mi raccontò che doveva poi recarsi in curia dal vescovo a depositare il documento compilato dal parroco, e che il prelato doveva preparare una lettera in Latino da consegnare al vescovo di David in Panama, dove, tra l’altro, si asseriva che era in grado di fornicare.
 Come uscì dall’oratorio, Vito divenne un mangiapreti tremendo, e ogni volta che ne conosceva qualcuno lo squadrava per vederne dall’aspetto o dagli atteggiamenti se poteva essere un omosessuale. Una nebbia tremenda l'accecava, ma per fortuna si limitava a dire che spesso i preti accarezzavano i giovani provando un piacere un po’ diverso da quello paterno, senza accusarli apertamente di pedofilia. Non era così maligno, per quanto fosse malizioso e prevenuto nei loro confronti.
 Quando gli chiesi come avesse trovato il vescovo, mi rispose laconicamente che batteva la fiacca e che, coni piedi sulla scrivania e con il sigaro in bocca, si pavoneggiava come qualunque capufficio. Poteva essere anche vero. Non ho mai approfondito l'argomento perché, per principio, non mi avrebbe mai detto la verità.
 Dopo aver subito interrogatorio e predica, Sua Eccellenza gli fissò la data per ritirare il documento presso la segreteria. Già, qui viene il bello! La lettera era sigillata con la ceralacca. Si pensi alla gran fiducia che hanno i preti nei confronti dei loro fedeli! Ma io non ridevo solo per quello, pensavo a Vito che non aveva via di scampo: doveva recitare il Credo, confessarsi e far la comunione con la fede del credente. Mamma mia, cosa si fa per amore! E per fortuna, l’ha anche scampata bella!  A quei tempi, i promessi sposi non facevano ancora i corsi preparatori per il matrimonio.
 Dopo una settimana mi rividi con Bigio al bar. Spesa qualche parola sull’impressione piuttosto sgradevole ricevuta dal prete, si andò sull’argomento.
 Bigio aveva raccontato che a una festa, entrando in una stanza da letto, aveva trovato mio fratello con una ragazza. Il parroco:
 - Ma cosa facevano? - con stupore.
 - E cosa vuole che facessero?
 - Vorrei sapere se fornicavano.
 - E cosa potevano fare sopra un letto?...  La cavalcava.
 - Ecco,- disse e scrisse il prete- fornicava. – e non ancora contento aggiunse - L’hai visto altre volte?
 - Proprio visto no, ma in compagnia siamo andati più volte in casino.
 E mentre gli faceva firmare la deposizione: - Lo sai che è peccato?
 Bigio sorridendo: - Ma sono peccati veniali che si possono cancellare anche con una semplice gomma per matite.
 - Cerca d'essere più serio! - rispose il prete irrigidendosi.
 Sulla porta, Bigio: - Don, sarete mica seri voi? che pretendete dei collaudi e, al tempo stesso, volete che non si debba fornicare.
 
(1)  Attaccar discorso.
(2)  Masturbazioni maschili.







sabato 1 marzo 2014

GIU' LE MANI DAL CULO


   Che fortuna! riuscire a dominare la voglia matta di mettere le mani su qualche bel culo di donna.
 E con l'andar del tempo, ho notato che questa foia è comune a tanti uomini, se non addirittura a tutti.
 A fine maggio del Settantacinque, con mia moglie andai in vacanza per una settimana a Capri. Avevo accettato l’invito di Gian Maria e di sua moglie Ida. Andare a riposarsi e a prendere un po’ di sole facendo qualche tuffo nelle limpide acque della nostra più bella isola, non era cosa di tutti i giorni. E chissà quando mi sarebbe capitato un'altra volta!
 I partecipanti erano press’a poco della mia stessa età, dai trenta ai quarant’anni, ed erano tutti impiegati alla IBM, essendo stata la ditta che aveva organizzato quella breve vacanza. Mi fu facile legare con loro: quando si parte, si lasciano i grattacapi a casa e ci si va con una gran voglia di divertirsi. Contrassi amicizia con Ezio e Bravi, entrambi vivaci e scatenati quanto me. E nonostante mia moglie mi fosse sempre alle costole, già con loro ne avevo combinate più d’una. 
 Verso le dieci d’un bel mattino, la compagnia salì su un pulmino per andare ai Faraglioni. Eravamo talmente appiccicati che non si riusciva a respirare. Bravi, che quel giorno era particolarmente allegro, lungo tutta la strada aveva storpiato la canzone di Harry  Belafonte “ Banana Boat". Ne aveva cambiato le parole e, intonandosi a quel “talami banana", cantava a squarcia gola quella del “ frutarol”(1). In preda all'euforia, per far salire sull’automezzo Leda, la moglie di Ezio, l’aveva aiutata spingendola con una mano sul fondo schiena. In pulmino, alla mia sinistra avevo Bravi e alla destra Ezio, io ero nel bel mezzo tenuto in piedi da loro due. Abbassando lo sguardo vidi che la mano di Bravi era ancora sul culo di Leda. Ma era un vizio o ci aveva preso gusto?
Lo giustificai pensando a "come si fa", dico io, "a non toccare quel ben di Dio?"       
 Rialzai il capo, e subito dopo lo riabbassai: la mano di Bravi era sempre sullo stesso punto d’appoggio e lo stava accarezzando. Alzando leggermente il capo, volsi lo sguardo verso Ezio che era preso dal panorama.
 Quell’eterno scapolone di Bravi s'era preso quella confidenza, non sembrava né turbato né eccitato: palpava il sedere con disinvoltura come ne fosse il legittimo e consacrato proprietario. Ritornando con lo sguardo su Ezio, lo trovai intento a osservare la mano. S’accorse che lo guardavo e, dopo un cenno a un sorriso e a una spallucciata, s’abbassò verso di me e sottovoce come per farmi una confidenza:
 - Lassa che i se goda!
“ Ma come? Gli palpano la moglie, e lui mi dice lassa che i …” fu il mio primo pensiero. Ma riflettendoci bene, e considerando che aveva detto i al plurale al posto di el al singolare, probabilmente pensava che la moglie credesse che la mano fosse la sua e non quella di quel furbetto di Bravi.
 Nei giorni successivi, li tenni sott'occhio tutti e tre per cercare di capire se l’episodio avesse creato dissapori. Purtroppo, anche se mi sarebbe piaciuto qualche screzio, tutto filò liscio come l’olio e, d’altra parte, non potevo andar a chiedere spiegazioni per non intorbidire le  acque. E ogni volta che ripensavo a quell’episodio, consideravo la saggezza di Ezio di lasciar perdere e di non aver dato importanza al fatto.
 Un giorno, avvenne che più o meno la stessa cosa capitò anche a me.
 Nei primi anni dell’Ottanta, fui invitato dai miei amici Montignani a una festa di carnevale. Non fu una gran festa, anche perché ci furono tanti sciocchi che non erano in maschera, nonostante sulla locandina, a chiare lettere, ci fosse scritto che era di rigore per i partecipanti l’essere mascherati. Chi non si vuole mascherare perché lo trova poco dignitoso o si vergogna, è meglio che se ne stia a casa. E mi meraviglio perché non vengano respinti all’entrata. Già, siamo in Italia! e ciascuno fa ciò che vuole per onorare la libertà di rispettare regole e leggi.
 In un capannone fuori città, organizzato dai ferrovieri o da qualche altra associazione di poveri lavoratori, alla modica cifra di trentamila lira, su lunghe tavolate e seduti su panche ci servirono un primo, un secondo, galani(2) , e oltre al vino a volontà, una mascherina, una trombetta, coriandoli e stelle filanti, dandoci poi la possibilità di fare tre salti.
In quella bolgia di duecento persone, mia moglie era vestita da zingara con trucco vistoso e grandi orecchini a cerchio; io portavo un saio da fraticello confezionatomi da Lucia, moglie di Montignani.
 A tavola, avevo alle spalle un settantenne che aveva incominciato ad attaccar bottone con noi e che, dagli sguardi e dai sorrisi, ammirava sfacciatamente mia moglie. Io andavo in giro per i tavoli a confessare le signore. Per dare la soluzione, le costringevo a prendere in mano il cordone del mio saio come suggeriva una vecchia e ben nota canzone profana che inizia con: "Chi bussa al mio convento con quest'acqua e questo vento?" E le donne sorridevano quando dicevo che le assolvevo per aver peccato più di desideri che aver soddisfatto alle loro voglie. Non c'era bisogno di risposte, visto che con i loro sorrisi mi davano ragione.
 Venne il momento d’andare al ballo. C'eravamo appena alzati da tavola, quando l’anziano ammiratore di Teresa come un gatto mi saltò davanti e, mentre si usciva dai tavoli verso la pista, mise le mani sul culo a mia moglie.
 Masticavo rabbia. Solo dopo tre balli con questo novello spasimante venne da me Teresa che seccata:
- Adesso balli solo con me! L'ometto va oltre la creanza; non ne posso più: mi stringe talmente tanto che mi toglie il respiro. 
 Non dissi nulla. Prendermela con quel vecchio l'avrei mortificato per niente, e se poi l'avessi confessato a mia moglie, oltre a trasformare un simpatico e focoso ammiratore in un fastidioso seccatore, ci sarebbe rimasta male. Alla delusione sarebbe subentrata la rabbia di non potersi sfogare. Non valeva la pena di rovinarle la serata.
 Durante il ballo allungai anch'io le mani.
 - Ma cosa ti sei messa?
 - Il busto come portano le zingare spagnole e una guaina. Perché?
 Non sapendo come giustificarmi, le dissi:
- Se qualcuno ti dovesse toccare il cecè (3) ti troverebbe soda, direi di marmo.
- E perché qualcuno dovrebbe toccarmelo? Ma scusa un po': per aver quarantatré anni è forse troppo flaccido?
 Ricordandomi della lezione di Ezio: che c'è più carattere e saggezza nello starsene zitti che nel parlare, eludendo la domanda, cercai di distrarla. Con una piroetta la portai fuori tempo. Poi, per non farla cadere la ressi, la strinsi, e le diedi un bacio.

 

 
       (1)  Fruttivendolo.
       (2)  Frittelle di carnevale.
       (3)  Sedere.



 

martedì 7 gennaio 2014

UN REFOLO seconda parte

 La mia compagna era poco loquace. Ma che dico! non lo era affatto. Sembrava che la colpa fosse solo mia. Tentai di sdrammatizzare la situazione, ma non ci fu verso. Con dei secchi: - Sta zitto! – mi liquidava ogni volta. Mi sentivo solo, anche se ero in compagnia. Non più tardi di un’ora c’eravamo baciati, stretti, posseduti, ma una porta s’era chiusa. Un silenzio soffocante, più opprimente di quello che si soffre nei salotti d’attesa di medici o d’avvocati, separava due estranei reciprocamente insofferenti. Avrei voluto essere lontano, al bar, da te che mi attendevi.
 Durante una di quelle soste, mentre aspettavo che il tempo passasse, sbirciai un soriano; ne seguivo i passi felpati e la felina eleganza, quando il riflesso d’un lampone sul parabrezza mi offese. Che fortuna! Mi misi a giocare come un ragazzino con le luci che si riflettevano e si rifrangevano sul vetro. Strizzando gli occhi, mi perdevo alla ricerca di composizioni geometriche, di figure irreali, che i fasci luminosi e gli aloni con un leggero movimento sapevano creare. Bastava un nonnulla a raggiare un punto luminoso in lamine laceranti, e lungo quei fili dardeggianti smarrivo il mio tempo, lenivo il mio affanno.
 La mia compagna, appoggiata alla maniglia della portiera, si sorreggeva il capo in un atteggiamento mesto, pensieroso; i suoi capelli biondi, indorati dal sole estivo e dal mare, scendevano scomposti sin alle spalle; il suo profilo fine, da cammeo, si stagliava sul fondo oscuro. Anche scattando una foto non avrei mai impressionato tanta bellezza e una così languida malinconia. Sapevo che era bella, ma non a tal punto. Fui preso dall’impulso di darle un bacio, di stringerla: dominai l’istinto. Sarebbe stato come calpestare una distesa di neve o come strappare un fiore, non potevo rompere l’incanto di quel momento.
 Guardando con disprezzo sia me che Toni: - Brutte bestie! … Si può essere qualche volta delicati e sentimentali o è proibito? Va bene, non mi credete, pensate sempre che io sia uno scannatore di donne. Non importa, - beve un sorso e riprende.
 - La mia polo le stava stretta, evidenziava i suoi grossi seni a pera, arrivava a coprire sì e no l’ombelico. Fra le cosce spuntavano e spiccavano, sull’impronta lasciata dal costume, un ciuffo di peli; e quell’eccitante immagine vellicò le peccaminose intemperanze della mia fantasia.
 Sognai d’essere un principe dell’Ottocento. Alla mia corte, dame e cortigiane, invece di farmi la riverenza, alzavano i sottanoni e me la mostravano. A turno, i miei sudditi venivano ospiti al mio castello, che ovviamente era sempre in festa. Avrei conosciuto in tal modo tutto il pelo del reame. Con un editto avevo fatto abolire le mutande e avevo introdotto la nobile consuetudine, che la donna, incrociando un amico o un conoscente, dovesse alzare le sottane e gentilmente  mostrarla. Si sarebbe così potuto comprendere, dalla fretta o dall’indugio, la disponibilità della femmina. Naturalmente ne sarebbero state esonerate le minori di diciotto e le maggiori di sessanta.
 Per sradicare cattive abitudini e inveterati pregiudizi, istituii premi favolosi per le donna più generose, e severe punizioni a chi la lasciava marcire. Le donne ricche, pensavano d’averla più bella, le povere, d’averla più brutta, osteggiarono l’attuazione di queste riforme. Quando le classi sociali s’avvidero che, dietro alle apparenze, l’umanità era uguale, fu una gara a chi alzava maggiormente.
 Ero amato dalla borghesia e dalle classi meno abbienti di tutta Europa, perfino da oltre Oceano. Uomini di scienza e artisti mi manifestavano la loro simpatia. Sulle barricate i rivoluzionari brandivano il mio vessillo; i miei sudditi vivevano felici e contenti in rispetto delle leggi e con un gran senso di Giustizia. Per ovvi motivi, sarei stato in lotta con la Chiesa e l’Inghilterra. Ma sì, anche con l’Inghilterra. Avrei avuto grossi problemi con gli stati confinanti: orde assetate di libertà avrebbero premuto alle frontiere. Per farla breve: avevo liberalizzato il sesso, liberato la donna, offuscato Napoleone.
 Dalle risate ci rotoliamo sotto i tavoli. Saltan fuori tante e tali spiritosaggini da riempire un libro. In questo regno felice io vengo incoronato Gran Cerimoniere; Toni il Reale Collaudatore: sarebbe andato di paese in paese, di città in città a provare le donne che ambivano al premio. Ombre e dubbi svaniscono; siamo di nuovo amici. Vuotiamo i bicchieri; il vino infuoca maggiormente la calura estiva. Gianni, come una macina:
 - Mentre almanaccavo su questo stato bordello, uscii da uno stop. E per un pelo non mi trovai una Mercedes nel fianco. Il tizio alla guida strombazzò, imprecò, tirò degli accidenti, e, per mia fortuna, proseguì. Ci pensate in che casino mi sarei messo, se avessi provocato un incidente, o, peggio ancora, fossi finito all’ospedale? Io con solo i calzoni e l’altra senza mutande?
 Per l’inquirente ci sarebbe stato il mistero; per il prete lo zampino del diavolo; per l'etologo una nuova regola di vita; per il cronista un articolo in prima pagine. Se poi i particolari dell’incidente fossero giunti alle stampe, si sarebbero scatenate le quotidiane e capziose polemiche tra sociologi e psicologi; mentre dalla Germania, probabilmente, sarebbe giunta la notizia che un noto filosofo avesse interpretato l’episodio come l’avvenimento intellettuale più significativo dell’ultimo cinquantennio. Il liberarsi dagli indumenti in automobile sarebbe stato considerato come l’affrancamento dall’ultimo residuo di schiavitù. Allo scopo, sarebbe sorta una nuova filosofia, di cui sarei diventato l’indiscusso antesignano. Dietro questo vento, i firmaioli avrebbero sfornato fiumi di etichette; i naturalisti avrebbero scelto un nuovo vessillo; gli incapaci avrebbero creato una nuova Art; e così via …
 Adesso, mi permetto di celiare, ma iersera, ve l’assicuro, abbiamo preso un tale spavento, tant’è vero che la mia amica sconsolata mugolò: - Ma mi vuoi rovinare?
 E non è finita qui. Lo sapete bene anche voi che quando la sfiga vi prende di mira poi non vi molla. Orbene, iersera, non mi ha lasciato un momento di respiro. Ancora adesso porto addosso le impronte e lo strazio dei suoi terribili artigli. Non le fu sufficiente l’avermi guastato la serata con un refolo, con un vecchietto e con lo spavento d’un incidente, sentite un po’ quel che mi accadde ancora.
 Entrammo in casa verso le due e ci precipitammo a bere; calmata la sete, le mostrai l’abitazione: ne rimase entusiasta. Che brave le donne! Vanno e vengono in casa d’altri come se fosse la propria …
 Noo … non chiedetemi queste cose. Come potevo non aver rispetto di quella povera diavola dopo tutto quel che le era successo. Mascalzone sì! ma fino a un cento punto … Prima di questa interruzione, volevo dirvi che non ero affatto preoccupato che la mia amica girasse per casa: tanto non avrebbe potuto dimenticare o perdere qualcosa.
 Questa mattina, un po’ prima delle otto, è venuta a portarmi il caffè a letto. Con mia sorpresa, l’ho trovata serena, sicura di sé e vestita: s’era messa un abito di mia moglie. Dopo avermi dato un bacio, mi spiegò che aveva preso ventimila lire per il magnano e, senza darmi il tempo di dir qualcosa, se ne andò via.
 Intontito e ancora mezzo addormentato mi alzai. Con la tazza del caffè in mano andai alla finestra della cucina. La vidi attraversare il giardinetto e avviarsi al cancello. Il vestito di lino le stava corto e stretto, in controluce, manco a farlo apposta, notai che era ancora senza mutande. In quella, sentii gridare dalla Maria il nome di mia moglie. Lei, vedi beffa! Si voltò.
 La tazzina mi cadde e il caffè m’andò di traverso, lo sputai tossendo; m’uscì pure dal naso, mentre gli occhi mi si riempivano di lacrime. Eh, eh! … sono stato veramente fortunato: ho salvato le orecchie.
Guardo il Toni che non la smette di ridere, mi alzo, e vado al banco a pagare il conto.




venerdì 3 gennaio 2014

UN REFOLO

  - Ma hai anche il coraggio di ridere?
 Gianni “ Chitarra”, mostrando una protesi di pregevole fattura, di rimando:
 - Mi vengono in mente gli occhi stralunati e la faccia compiaciuta d’un vecchietto che, iersera, s’è visto sfrecciare davanti due chiappe nude.
 Fissandolo con rabbia: - Ed io che t’ho aspettato fino a mezzanotte riempiendomi di birra. Potevi almeno telefonare!
 - M’è stato impossibile.
 - Figuriamoci! - con sarcasmo: - Viviamo nel Medio Evo e nel deserto - . Rivolto a Toni: - Che tu sappia, c’è stato un black-out telefonico iersera?
 Me ne sto beato sotto gli ombrelloni, fuori dal bar Sinico, in Via Leoni. Mi tiene compagnia il mio amico Toni, per antonomasia ”Gussa”. Si beve in silenzio, del resto, quando si è con un amico, l’animo è pervaso da una calda disposizione e da una candida condiscendenza che spesso non s’avverte la necessità d’un dialogo.
 Un caldo fermo e pesante intorpidisce questa giornata d’agosto, sono le tredici passate, pochi avventori e rari passanti in quest’ora oziosa. Ammiro divertito i capelli cotonati e riportati di Toni: pregevole opera di pettine, lacca e specchio. Ne osservo le rughe profonde, lo sguardo irrequieto, pronto a puntare come un cane da caccia, qualsiasi donna, quando arriva ‘sto seccatore, che, per giunta, ride.
 Ordiniamo altri tre bicchieri di vino con l’accordo che, se Gianni è in grado di dare una spiegazione plausibile al suo mancato appuntamento, li offrirò io, altrimenti toccherà a lui. Gianni, con invidia mia e di Toni, s’è sviluppato oltre il metro e ottanta, impettito come se fosse legato a un palo, possiede i requisiti per rispondere agli annunci pubblicitari che richiedono la “bella presenza”. Dotato di buon orecchio e di ottima tenuta nello scolar bicchieri, con la chitarra rallegra le nostre serate, e appunto per questo c’eravamo dati appuntamento la sera precedente.
 Ecco qui il suo racconto, parola per parola.
 - Ieri sera, dopo il lavoro e prima di cena, sono andato a trovare una mia conoscente. Era ritornata temporaneamente dal mare, dove aveva lasciato il marito e il figlio, per dare un’occhiata alla posta, per pagar bollette, per annaffiare i fiori; insomma, anche per dar aria alla casa.
 - Avanti! nome, cognome e indirizzo, - interviene Toni, picchiando il pugno sul tavolo.
 Gianni accenna a un sorriso e continua:- Abbiamo trascorso una serata meravigliosa. Per cena: un prosciutto di Parma morbido, dolce, come si può avere alla Buca di Zibello; un melone profumato, succoso, come pochi se ne assaggiano; poi un Vezena con la goccia; e infine … champagne! Una vedova Clicquot ghiacciata che faceva frizzare la punta del naso.
 Dopo il caffè siamo ritornati a letto. Ragazzi, non ho mai conosciuto una femmina così scatenata. Così dovrebbero essere tutte quante … insaziabili! Certo che avere una moglie così fatta corri il rischio d’esser becco, ma, in compenso, il letto diventa un paradiso. Per queste donne l’amore è un rito oltre a una necessità; anche la saliva ne è più dolce.
 Toni deglutisce e sospira gonfiando le froge, sicuramente perso in sogni proibiti; io ascolto con sospetto quest’ipocrita nella speranza che menta.
 Fissandomi negli occhi e ivi leggendovi: - Non ti racconto balle. Alle dieci e un quarto ero pronto a venir da te. E invece … Ah, sapessi com’è diventata complicata la vita! Un errore o una distrazione ti possono essere fatali … Porca galera! Anche nel divertimento e negli appuntamenti galanti si deve prestare attenzione, basta un imprevisto o una banale distrazione e sei rovinato.
 Mi trovavo dunque sul pianerottolo in attesa dell’ascensore, quando la mia amica, aperta la porta, venne a darmi un ultimo bacio. Vi ricordate dell’afa di ieri sera? Vi ricordate che non c’era una bava d’aria?... Be', un refolo: uno stramaledetto  alito d’aria, creatosi tra l’appartamento e la rampa delle scale, la chiuse fuori. Gettò un grido spaventoso, sbiancò; nei  suoi occhi lessi orrore e disperazione. Le tappai la bocca per paura che le sfuggisse qualche altro lamento e , per qualche secondo, restammo uniti in ascolto dei rumori provenienti dagli appartamenti vicini. Sentivamo solo i nostri respiri. Giunse l’ascensore: la spinsi dentro con così scarsa destrezza e con tal fracasso che, se avessi voluto svegliare il condominio, non avrei potuto far meglio.
 C’è un piccolo particolare che non vi ho ancora raccontato e che non è affatto trascurabile. Dovete sapere che la mia amica, oltre al fatto d’essere rimasta chiusa fuori, non aveva nulla indosso … Sì, sì! Avete capito bene: era nuda!
 In ascensore mi ricoprii subito di sudore, e credo di non aver mai sgocciolato così neppure durante una partita di tennis o in una sauna. Nelle stesse condizioni c’era pure la mia compagna che dava stura alla sua collera e al suo dolore. Disperatamente continuava a gemere: - Come faccio a entrare? Sono rovinata! Oh, se telefona mio marito sono rovinata!- Con il viso solcato dalle lacrime, con il petto che sussultava per i singhiozzi, tutta umidiccia s’era attaccata a me. Mi sforzai di confortarla, senza sortire effetto. Fu presa dai rimorsi: - Me lo merito! - sospirava - Dio ha voluto punire il mio peccato! Sono stata castigata! Oh, se mi trovasse mio marito!
 Non c’è nulla da fare, è comune a tutte le donne. Se mi vedesse mia madre! Se mi scorgesse mio figlio! Se lo sapesse mio marito! … Per la madosca! Possibile che abbiano sempre qualcuno?
 Quel complesso di colpa m’infastidiva, mi feriva; e, d’altra parte, provavo una gran pena per quella misera che non si dava pace, che in pochi attimi era passata dallo smarrimento alla disperazione, dal dolore al pentimento. La pietà mi strinse. Mi tolsi la maglietta e la coprii. L’ascensore andava su e giù, era diventato un forno: perfino i vetri delle ante sgocciolavano. Sentendomi mancare il respiro, le chiesi di attendere un mio segnale e uscii.
 Non vi racconto il senso di liberazione e di sollievo che delle boccate d’aria fresca mi procurarono. Portai la macchina in seconda fila: m’era impossibile arrivare al marciapiede, diedi un colpo di clacson e attesi.
 Un vecchietto, sbucato dall’angolo della via, venne a incrociarla, per poco non ne fu travolto. Lei arrivò a piccoli passi, frettolosi, trotterellando, con le mani sul davanti che si copriva. Certo che ci si può presentare così ad Adamo; ma per carità! non ditemi che si può correre in quel modo.
 Ripensando ora al vecchio che spalancò le palpebre, strabuzzò le pupille e il cui volto assunse quell’espressione sorpresa, compiaciuta, mi scappa ancor da ridere. Probabilmente, questa sera ripasserà: alla ricerca ancora di incontri così piccanti.
 Come giunse in macchina, mormorò ansando: - Mi ha vista?- Per far lo spiritoso: – Come no! Ti ha riconosciuta.
 Non era il caso. Quella battuta fuori luogo diede origine a una valanga di titoli. Me ne disse tante e poi tante che non saprei ripeterli tutti in una volta sola. Tribolai un bel po’ per quietarla.
 Andammo a casa di una sua amica, ma non c’era. Sarebbe stata la salvezza per entrambi. Lei avrebbe telefonato in albergo al marito, e con una scusa qualsiasi avrebbe spiegato l’inconveniente. Invece, mi ritrovavo seduto in macchina, a torso nudo con un gingillo erotico privo di mutande. Chissà quanti uomini sognano una situazione del genere! Al contrario, io non vedevo l’ora di venirne fuori.
 L’unica via d’uscita, a rigor di logica, restava di condurla a casa mia. Allora con voce dolce e suadente: - Che ci siano delle tue amiche in città d’agosto è poco probabile: ti conviene venire a dormire da me, visto che anch’io ho la famiglia al mare. In queste condizioni, risulta impossibile cercare letto altrove: te ne rendi conto anche tu. C’è però un pericolo: dobbiamo far attenzione alla vecchia Maria. Questa mia coinquilina ha lingua lunga, occhi e orecchi dappertutto.
 - E per entrare in casa mia? – mi rispose lei ancora sconvolta.
 La portai allora a un isolato dalla sua abitazione, davanti a un portone vicino a una salumeria. Le spiegai che nel cortile interno lavorava un vecchio fabbro, e che con probabilità non era in ferie, altrimenti avrebbe dovuto rivolgersi al magnano di Piazza delle Erbe. – Vicino alla colonna sormontata dal leone di San Marco, c’è un chiosco dove fanno le chiavi, ti daranno il nome d’uno scassinatore – le dissi. Tornando indietro, passai accanto alla mia villetta; ma argo vegliava.
 Non potendo sostare nella mia via, per timore che qualche vicino potesse riconoscermi, iniziai a girare per la città e a sostare nelle zone oscure  di piazzette solitarie e di tranquilli sagrati, facendo, di tanto in tanto, dei giri attorno a casa. In macchina avevo acceso il condizionatore d’aria; sono però senza radio: è la terza che mi rubano nel giro di pochi mesi, e mai ne ho sofferto la mancanza come in quelle ore d’attesa.