giovedì 29 agosto 2013

SPERANGELO


  Anni fa, avevo scritto un racconto su Luciano Pelizzari, un pittore che a quei tempi viveva in un paio di locali che s’affacciano su Piazza Delle Erbe qui a Verona. Mario Miollo, altro amico pittore che bazzicavo ancor prima di Luciano, mi fece una imbarazzante scenata di gelosia. Per mettere le cose a posto, dovetti scrivere anche su Mario qualche riga che poi pubblicai nel mio primo libro “ Il maestro della leggenda di Sant’Anastasia”. Ma questo non fu l’unico caso.
  Un giorno, venne da me un signore distinto con cui avevo fatto qualche chiacchiera, venduto forse qualche occhiale, e nulla più. S'appoggiò al banco di vendita e davanti a una coppia di clienti :
 - Ah, son proprio contento!... Caro Monti, giorni fa ero ad Ascot alla corsa dei cavalli quando il Duca di Kent, che è  mio amico da vecchia data, pieno d’orgoglio mi ha mostrato uno scritto che aveva ricevuto qui a Verona qualche mese prima. Glielo avevano dato come omaggio avendo consegnato alla nostra città, da parte dell’Unesco, il riconoscimento di “Patrimonio dell’Umanità”. Non dirmi che non ne conosci l’autore? ... Di me, che ti conosco da una vita, non hai mai scritto niente; arriva uno che non hai mai visto e gli dedichi una poesia. Son proprio contento ... Eh, sì! son proprio contento! - e amareggiato uscì.
 Non feci tempo a spiegargli che era una composizione in rima tra il panegirico e una lettera di ringraziamento. Che ero stato costretto a scriverla per accontentare il mio amico Guido, gestore del Caffè Dante, dove si era tenuto un pranzo ufficiale, e che i Duchi di Kent li avevo visti solo al ristorante.
 E adesso, cari amici, non voglio sentir altre storie! Siete in tanti, forse in troppi a volermi bene, e di questo vi ringrazio; ma per riconoscenza, non posso consumare la mia vita a scrivere qualche rigo su ciascuno di voi. Però non è questa la questione, purtroppo c’è anche il fatto che, per distrazione, potrei dimenticarne qualcuno, e non vorrei quindi che qualche povero diavolo si offendesse e passasse al nemico.
 Detto questo, vi parlerò ora del mio amico Sperangelo.
  L’amicizia, come l’amore, nascono spontaneamente e la loro genesi ci è ignota, anche se qualcuno trova che l’essere affini o completamente diversi sono motivi d’unione. Ora, anche nelle diversità c’è sempre un qualcosa che lega, e che sfugge anche al più attento ed esperto ricercatore. Nel nostro caso, ciò che ci accumunava era forse l’avversione alla stupidità. Non ricordo in che occasione lo conobbi, so solo che simpatizzammo al primo incontro, e via via ci affiatammo. Conquistava con il sorriso, mentre il sottoscritto possedeva l’aggancio facile con le fanciulle. Senza soffrir di satiriasi, era un falchetto con le sue prede. Mentre io, nonostante la batosta infertami da Enrica, da povero ingenuo cercavo ancora l’amore con la lettera maiuscola.Tra i difetti e le qualità che ci legavano c’erano la gran volontà di non studiare, quella di chiedere sempre aiuto al borsellino della propria madre, e la capacità, che non è da tutti, di saper condividere anche i silenzi.
  Molto più bello di me, mentre io lo ero solo per la mia mamma, e più giovane di quattro anni era iscritto all’Università di Torino in Medicina. Ormai è passato tanto di quel tempo che posso tranquillamente scriverlo che prendeva sì il treno per Torino, ma che si fermava da me a Pavia; e questo lo fece per un paio d’anni, come per un paio d’anni passammo le vacanze estive battendo la Riviera Romagnola. Quasi ogni sera poi, se eravamo a Cremona, si partiva in automobile e si perlustrava la provincia passando da una cascina all’altra dove ci attendevano dolci fanciulle felici di ospitarci. Ora però vi chiederete: come mai la nostra corrispondenza finì? Fu trafitto da un amore più grande: s'innamorò d'una gran bella donna.
 Mentre in vacanza ci andavamo con la mia Cinquecento, per tutti gli altri spostamenti si usciva con la sua R8. I suoi erano in apprensione a mandarlo in giro: aveva il piede troppo incollato sull’acceleratore. Sperangelo aveva tappezzato l’auto di strisce, ne aveva fatto ritoccare il motore, l’aveva munita di marmitte e di fanali supplementari, di trombe, insomma: l’aveva rivestita dell’aria cattiva delle macchine truccate come se dovesse partecipare a qualche rally. Tutta robaccia che andava di moda dopo la metà degli anni Sessanta.
 Si partiva dal bar alle ventuno e trenta tra la rabbia e l’invidia degli amici che volevano sapere dove s’andava a quell’ora. E noi volavamo cantando a squarciagola dalle nostre amiche, accolti, nella maggior parte dei casi, da pane e salame innaffiato da buon vino. Per fortuna, i padri delle ragazze non c’erano mai, e se ci fossero anche stati, si sarebbero ritirati in qualche altra stanza a guardare la televisione per non mostrare i loro musi ingrugniti. Le madri invece, oltre a riceverci con sorrisi che arrivavano alle orecchie, ci aprivano le madie e le cantine con la proverbiale generosità della gente di campagna. Ci adoravano più delle loro figlie; e chissà che ponti d’oro ci avrebbero fatto, se uno di noi se le fosse portate via. E noi, da bravi ruffiani, queste brave mammine ce le indoravamo e le coprivamo di calorosi complimenti.
 Tra queste amiche così ospitali, oltre a Franca e alle sorelle Scalvini e Guarneri, annnoveravamo Giuseppina che frequentava Biologia a Pavia. Sul metro e sessantacinque, ben fatta, ma sopratutto soda e tornita a tal punto che, quando l’abbracciavo, mi sentivo pungere il costato. Un vero peccato che avesse  l'aria campagnola.
 I suoi possedevano una cascina nei pressi della Costa a circa 8 km dalla città. Una sera, verso le ventidue, capitammo senza preavviso nella sua corte e, attraversate le aie, frenammo davanti alla porta di casa. Ma caspita! il portale era in gramaglie. Si smise di cantare e ci guardammo negli occhi senza fiatare. Non solo con i nemici, ma anche con gli amici basta un solo sguardo per intenderci. Non si poteva far marcia indietro: il rombo della macchina aveva svegliato anche le mucche nelle stalle, e poi lei s’era già affacciata sulla porta. Sperangelo smontò per primo dall’auto, le andò in contro e, dopo averla abbracciata, senza sapere chi fosse morto, in tono sommesso e commosso:
 - Abbiamo sentito la triste notizia e ci siamo precipitati.
 Sì, sì! Mi aveva battuto sul tempo. E i nostri cari amici dicevano che eravamo un po’ indietro per il fatto che la tenevamo un po’ troppo lunga all’università.
 Come finì? È facile da immaginare: dopo qualche preghiera davanti alla bara della nonna, terminammo la serata in cucina come tutte le altre volte.





sabato 24 agosto 2013

LA SELLA


 Tra i dieci e i tredici anni, in soffitta a Cremona in Via Volturno al numero 2, con i miei compagni di gioco ogni tanto ci mostravamo i primi peli.
 Il nostro pisello(1) s’allungava e s'ingrossava con il trascorrere del tempo, mentre per le ragazzine il taglietto, oltre a qualche piccolo pelo di rivestimento, non era poi tanto diverso di quando erano più piccole.
 Per saperne di più, dalla terza Media in poi andavo in biblioteca a spulciare sulle enciclopedie. Dovevo stare attento alla curiosità dei bibliotecari e degli studenti che mi passavano alle spalle. Prima dei diciotto, andavo a studiare nel nostro magazzino in Via Volturno al numero 26. Invece di applicarmi sui libri, attraverso un foro sbirciavo nel gabinetto del cortile in attesa di qualche preda. Purtroppo scorgevo ben poco: solo ciuffi di peli, e a volte il pelo era talmente abbondante che mi sembrava di vedere cespi di verdura. E allora sfogavo il livore e foia con delle seghe(2) rabbiose.
 I ragazzi del giorno d'oggi la cantano bella: noi non avevamo allora quelle meravigliose e piacevoli illustrazioni di cui dispongono al giorno d'oggi. Non esistevano riviste, cassette, trasmissioni televisive, Internet, dove  ci danno visioni panoramiche e talmente dettagliate che se ne possono contare perfino i peli. Quello che si vedeva allora erano solo disegni. Le fotografie erano rare e sfocate, e “L’origine del mondo” di Gustave Courbet ammuffiva ancora nei sotterranei  del museo.
 Più tardi, feci tempo a entrare nei casini e a soddisfare la curiosità.
 Negli anni Ottanta, venne da me una signora con un pacchetto. Capitò in un momento di confusione: avevo gente in negozio e che lei aveva premura, me lo lasciò sul tavolo dicendomi:
  - Le guardi! Le ho trovate in un secretaire di un mio vecchio zio notaio. E mi dirà che valore possono avere.
 Dopo aver chiuso bottega, scartai il pacchetto, e sorpresa! Dentro una custodia in marocchino, trovai una serie di fotografie di donne nude scattate in qualche casino di fine Ottocento o d’inizio secolo. Oltre alle foto, la scatola conteneva una tavoletta in noce. Sollevato un manichetto, sopra questo, distesi in senso orizzontale luccicavano un paio di prismi ottici. Dall'altra parte del piano, si poteva alzare, a mo’ di leggio, una tavoletta con un listello dove posare le foto che, essendo doppie e una accanto all'altra, per l’effetto prismatico si vedevano in rilievo. I dagherrotipi erano colorati a mano. Le modelle erano piuttosto in carne e non più tanto giovani, riprese poi in pose per nulla disinvolte. Di eccitante, rispetto a quello che si vede al giorno d’oggi, avevano ben poco. Erano sette o otto foto in tutto, incollate su cartone e ben conservate.  Forse il notaio le usava più che per stimolo per rinfrescarsi la memoria, chi lo sa!
 Alla signora dissi che al suo posto non le avrei vendute e feci una misera offerta, ma meglio di me la valutazione l’avrebbe fatta l'antiquario. Un vero peccato non offrire di più e non averle comprate all'istante. Le avrei tenute come un vecchio e curioso strumento da esporre come soprammobile e da mostrare agli amici per strapparne qualche risata.
 Anche se godo di una discreta fama d'aver i riflessi pronti, a volte mi comporto proprio da mona (3). Non ci arrivo! Non ci arrivo proprio! Non solo mi avvilisco quando perdo qualche occasione, ma mi arrabbio ancor di più quando non rispondo a tono o non rispondo affatto a situazioni che richiederebbero una mia reazione. Non potete immaginare la rabbia che ho masticato la volta che rimasi a bocca aperta davanti a quel meridionale che veniva ad annusare la sella d'una mia cliente.
 Di sabato mattina, arrivava in negozio per imparare a mettere e togliere le lenti a contatto rigide una ragazza giovane e carina. Paffutella, mora, sorridente, con gonne larghe e camicette scollate: un tipetto all'acqua e sapone, come si suol dire.
 Veniva in bici che appoggiava, dietro mio suggerimento, accanto alla vetrina del vicoletto in modo che la potessi tener d'occhio. Già da un paio di volte, avevo notato che, come la ragazza smontava dalla bici, subito dopo arrivava un uomo sopra la settantina che s’avvicinava alla bicicletta e appoggiava il naso sulla sella. Che cosa cercasse mi risultava difficile immaginarlo. Che conoscesse la ragazza? Mi confidai con Maria Luisa che non seppe darmi spiegazioni. Per saperne di più, organizzammo, per il sabato successivo, di prenderlo in castagna.
 Come lei arrivò, si nascose nel retrobottega in attesa d’un mio segnale. E puntuale come un orologio l’uomo, dopo qualche minuto, fece la sua comparsa. Uscimmo insieme dal negozio e lo prendemmo alle spalle. Per vincere la tensione e infonderle coraggio la presi per mano. Sudava. Con forza gliela strinsi ma lei si liberò e ritornò in negozio. Mi affiancai all'uomo e cautamente:
 - Scusi, ma cosa sta cercando?
 - Non cerco nulla, sto solo annusando.
 - Cosa sta facendo?
 - Sto annusando.
Questo settantenne brizzolato, con baffetti  ispidi come una spazzola, a suo modo elegante e per nulla impacciato, con l’aria più naturale di questo mondo e con un accento meridionale:
 - Cosa vuole che faccia? Annuso il profumo della Natura … e mi creda: appoggiata a questa sella, fino a qualche momento fa, c’era un fiorellino.


  (1) Pene.
  (2) Masturbazioni. 
  (3) Ritardato, sciocco.




domenica 18 agosto 2013

IL NIDO


  Ahi, ahi, ho sbagliato tutto!  
 Mah! Se il racconto è diventato triste, forse avrò commesso qualche errore. Letto e riletto parecchie volte, devo ammettere che nella trama c’è solo l’ombra preoccupata di una madre per la figlia. Una vicenda, tutto sommato, dove non c’è un filo di sofferenza. Ma forse già una piccola preoccupazione è già un affanno, anche se non è un vero e proprio dolore, un dolore fisico, intendo. Pur sapendo che il morale sale e scende con l'intolleranza al dolore e n'è strettamente connesso, sono però i pensieri a procurare i guai più grossi.
 Siamo alle solite. Mi perdo in certe considerazioni che non sanno proprio di niente. Se le risolvessi? Otterrei almeno il consenso di chi mi ascolta, invece di impastocchiare il discorso e non riuscire a venirne a capo. L’intero pensiero, forse fragile e quasi folle, può sembrare a mala pena definito anziché d’essere completo.
 Ma queste parole sono mie o le ho lette da qualche altra parte? Ah, m’ingarbuglio troppo! È meglio lasciar perdere! Invecchiando non so più quel che mi dico.
 Ma che m'importa da dove viene la tristezza? Da una preoccupazione, un rimprovero, un dolore fisico, un insuccesso, una delusione? A volte si è tristi e non si sa il perché. So che mi deprime a tal punto che mi par di morire, anche se a volte ha ancora il gusto del riso, come dice Prévert. Se mi capita di cader vittima di una sofferenza fisica mi avvilisco per il semplice motivo che, in quello stato di malessere, non mi riesce di leggere, di studiare o scrivere qualcosa. In fin dei conti, è solo il rammarico per il tempo perduto.
 Forse la tristezza del mio racconto non sta affatto nello sviluppo della vicenda, ma piuttosto nella battuta finale. Ma come ho fatto a non accorgermene? Probabilmente è stata una risposta amara e non affatto spiritosa, se non addirittura brutale, data in un momento di rabbia da chi t'aspetti che sia più sensibile alle nostre preoccupazioni. 
 Eppure, in un primo momento, mi sembrava che avesse un certo grado di comicità e che, parlando di uccelli, di quelli che non volano e che non cantano, ci fosse una certa dose di spirito e d’allegria. È l’allegria che ci dà vita e ci tiene in vita. Ne so qualcosa. Ho studiato in allegria: cioè ho studiato poco. Ho vissuto in allegria: ho speso tutto quello che ho guadagnato. Non ho mancato a una festa o a una cena, e sono sempre stato l’ultimo ad abbandonare la compagnia. Potevo forse far di più? Forse sì! Prendere una barca, navigare tra le nuvole, vogare verso l'immensità, l'infinito. Ma i sogni purtroppo non sono di questo mondo!
 Ma ritorniamo al racconto. Posso perfino correggerlo e dargli uno svolgimento diverso, posso cambiare i protagonisti. Ah, non c’è niente da fare! In qualunque modo lo giri e rigiri non cambia. Il finale rattrista. Ritoccandolo, limandolo, rendendolo più nobile o più becero, non riesco a  farne scaturire qualcosa di allegro. Se poi lo cambio troppo, non è più lo stesso racconto. Metterci mano dando una patina meno cruda al finale, perde sapore. Cosa fare? Cedere davanti all’ineluttabile? Mi secca. Negli scritti non ho mai evitato gli ostacoli, anzi, ho sempre cercato di superarli. Forse in un modo poco ortodosso, ma non mi sono mai arreso. Il racconto potrebbe essere anche buono, ma è fuori dai miei programmi: il sorriso che muove è solo amaro.
 Che abbia bisogno di tempo per riflettere? Di sospendere per un attimo e poi riprendere la narrazione in un momento più propizio quando l’inventiva riparte da zero e s’accende come fiamma, oppure con ali ai piedi vola più in alto? Capisco che il compito sia difficile e che la strada sia poco agevole e tortuosa, ma non vorrei darmi per vinto.  
 Io scrivo e scrivo; ma voi, cari lettori, mi state seguendo? Credete forse che vi abbia preso in giro? Non è una burla, neppure un gioco o un capriccio come spesso viene considerato in arte. Non sono così vanitoso da poterlo confrontare con un elziviro. E anche se fosse qualcos'altro, che importanza ha? Sappiate che non l’ho fatto con intenzione, m’è scappata di mano la penna e sono arrivate tante e tante parole che non ci sto più dietro. Ho le idee confuse e, a volte, sono più a asciutto d’un bicchiere vuoto. Ma per cortesia: non lamentatevi! se non sono stato chiaro e non vi ho svelato completamente l’arcano. Ho fatto più o meno come gli autori dei libri gialli che, di tanto in tanto, ci danno qualche spunto per farci continuare a leggere, mentre noi lettori, e mi ci metto anch'io, speriamo sempre di trovare qualche indizio che ci dia la possibilità di sbrogliare la matassa. Vogliamo capirci qualcosa pur sapendo che l’autore, con astuzia e arte, cerca di portarci fuori strada, facendo cadere i sospetti su personaggi che alla fine saranno innocenti.
 Forse mi mancano doti eccellenti per la speculazione, oppure ho perso l'ispirazione. Non sarò mai all'altezza d'un Fellini in Otto e Mezzo, e poi, anche se lo fossi, mi mancherebbe l'afflato di quella pellicola. E c'è dell'altro, non possiedo l'intelligenza, cultura, le singolari capacità di un Hermann Hesse. Non saprei costruirvi “Il gioco delle perle di vetro", dove le regole non vengono mai spiegate e l’incontro tra teoria e pratica, corpo e anima o qual altro sono il tema del romanzo. Non sono un colto autore, scrivo solo brevi racconti picareschi e poco impegnativi senza pretendere d’andar oltre. 
 Beh, non è andata poi male del tutto, invece d’un racconto ne avete letto un altro; forse non  così piacevole e allegro come doveva essere nelle mie intenzioni. Probabilmente non è un vera storiella, ma soltanto una semplice chiacchierata, e che forse non valeva la pena di tirarla tanto per le lunghe. Scusate ancora se, giunti a questo punto, non ho saputo far meglio. Siate comprensivi: non condannatemi! Vi ricordo ciò che disse George Moore: “Better a bad joke than no joke”.   


domenica 11 agosto 2013

ATTI IMPURI


   Mio fratello diceva che Beppe, un ventiquattrenne che giocava al calcio con noi ragazzi di tredici  anni all’oratorio di San Luca a Cremona, era un “salen”. Tradotto in lingua italiana un “salino”.
  Il termine  indicava, nel nostro dialetto, chi segue i ragazzini nei gabinetti e gli va a menar il pisello.(1) E su Beppe non si sbagliava. Lo verificai da una sua confessione fattami il giorno quando venne da me, invece d'andar io da lui, per scusarmi d'averlo accusato ingiustamente.
 Le nozioni sul sesso le avevo apprese dagli animali in campagna quando ero dai nonni. Per di più, tra i cinque e i sei anni giocavo, come tutti i bambini della mia età, al dottore con le mie amichette. Vivevo seguendo i semplici istinti naturali senza problemi né inibizioni finché, arrivato in città, frequentai l’oratorio. E come tutti i miei coetanei di quell’epoca, subii l’oppressione, la violenza, la ferocia e la brutalità dei preti contro il sesso, e di conseguenza contro le donne: uniche fonti di peccato, di perversione e dannazione. Come se al mondo non ci fosse abbastanza cattiveria e malignità da combattere.
  Nel dopoguerra, erano due i peccati mortali nel mondo: la masturbazione e il voto non dato alla Democrazia Cristiana. Preti maledetti! Ma non avevate altro?
 Si era ritornati a una mentalità medioevale, peggio ancora, a un fanatismo che ai nostri giorni chiamiamo fondamentalista. Non c’era predica all’oratorio o in chiesa a cui non si alludesse ai comunisti che mangiavano i bambini e alla lussuria. Come se il piacere della sessualità fosse una condanna di nostro Signore, invece d’una grazia o d’una benedizione. Non mi credete? Allora chiedetelo a Peppo, che a dodici anni aveva già come morosa la Gigliola che abitava a fianco della chiesa, e vi racconterà come veniva trattato da padre Mazzucchelli, il responsabile di noi ragazzi.
 Per chi guarda la chiesa, si entra nell’oratorio dalla porta di destra. Dopo il corridoio coperto si sbuca in un piccolo cortile, dove la prima porticina di sinistra immette in chiesa. Fatti tre scalini, a destra si trovava allora una stanzetta con un paio di confessionali che servivano per i cento ragazzi dell’oratorio.
 Dimenticavo di dirvi che la chiesa è gestita dai padri Barnabiti e che, ai miei tempi, i padri confessori di noi ragazzi erano solo tre. Padre Ponzoni , oltre a essere il più anziano, era anche il preferito; Mazzucchelli aveva le sue simpatie e veniva evitato; mentre Padre Erba che confessava di solito i fedeli in chiesa, a volte era un po'il nostro jolly. Ma cosa credete che confessassi? Solo le disobbedienze ai genitori e gli atti impuri. Mentre sto scrivendo, ricordo pure che mi dimenticavo d'essere goloso e di rubare i cioccolatini nel negozio dei miei. E secondo voi, che peccati può compiere un ragazzo di tredici anni? Quando lo racconto a mia moglie, lei mi confida che il suo prete le chiedeva : - Ti tocchi?  Dopo aver confessato atti impuri, dovevo pur dirne quanti, come se fossero interessati a quante seghe(2) potevo farmi al giorno. Subito dopo arrivava la terza domanda di rito, la più tremenda: - Solo o con altri?
 È qui che vi voglio! Ogni volta ero tentato di rispondere con altri, e la tentazione era così allettante e pervicace  che un giorno mi sfuggì: - Con altri.
 Per tutta quell’ala della chiesa corse il gelo, con una voce preoccupata mi sentii chiedere: - E con chi?
 A forza di sentire mio fratello risposi: - Con Beppe.
Fui agguantato per un orecchio e portato fuori dalla chiesa nel piccolo cortile. Con ancora in mano il mio orecchio: - Dimmi che non è vero!
 Risposi che avevo mentito, e allora il prete con voce piena di disprezzo: - Per penitenza, andrai a chiedergli scusa -. E finalmente, per il sollievo del mio orecchio, lasciò la presa.
 Povero padre Ponzoni, era tanto buono che aveva le fette di salame sugli occhi e, oltre alla veste che sentiva da refettorio, non capiva che un uomo con la barba spessa, dura e sempre perfettamente sbarbato e profumato, che veniva a giocare con noi ragazzini poteva aver qualche peccatuccio da nascondere. Cosa ci volete fare? Alcuni preti peccano d’ingenuità oppure vivono tra le nuvole.
 E mentre mi chiedevo se dovessi obbedire per ottenere il perdono, Beppe mi faceva certi sorrisi invitanti e subdoli come se sapesse quel che avevo confessato. Per fortuna che c’è il segreto del confessionale! Ma forse nel mio caso non c’era stato peccato per aver detto solo una bugia; però la bugia, pensandoci bene, è di per sé un peccato. Ma allora, come la mettiamo per risolvere questo guazzabuglio?
 Mi confidai con mio fratello che non faceva altro che spanciarsi dalle risate, mentre io ero ancor più in pena per il semplice motivo che erano già passate un paio di settimane che non servivo alla messa, che non facevo la comunione, e che non volevo lo si notasse che me la facevo addosso. Non potevo assentarmi dall'oratorio per timore di passar per vile e, d'altro canto, mi sentivo soffocare dall'ansia di uscire da quella situazione. Ogni volta che lo incrociavo, mi ripromettevo d'andar da lui.
 Gli avrei proposto di far la pace, offrendogli dei pacchetti di sigarette oppure gli avrei regalato una delle mie sette indulgenze plenarie. E non c'è niente da ridere! Le avevo meritate andando a servire messa tutte le mattine alle sette  dalle suore. Potevo quindi permettermi di regalargliene più d'una. Ma ogni volta venivo preso dal panico.  
 Per fortuna, è sempre il diavolo che s'avvicina all'acqua santa. L’iniziativa partì da Beppe; e finalmente venni liberato da quel peso! Mi trovò nel cortile più grande dell’oratorio mentre mi allacciavo le scarpe prima della partita. Come si avvicinò, mi presero i sudorini (3), mentre lui, senza alcun turbamento:
 - Sbaglio, o devi dirmi qualcosa?
 Per l’emozione non risposi, fu lui a venirmi in aiuto. Accidenti, che aiuto! Sibilando come il serpente del paradiso terrestre:
 - Anche se non sei il mio tipo, se vuoi, ti posso sempre accontentare. Tanto il prete non ti crederà mai, se lo confessi un’altra volta.



 (1) Pene.
 (2) Seghe e atti impuri sono le masturbazioni.
 (3) Piccole gocce di sudore.

giovedì 8 agosto 2013

UN FRANCOBOLLO


   “ Il cliente ha sempre ragione”.
 Ma come? dovrebbe aver ragione anche se non l’ha? E purtroppo gliela si deve dare per il semplice motivo che, se non gliela dai, perdi la vendita.
 Ma che vada a quel paese lui e la sua ragione!
 Un detto che mi ha creato seri problemi fin da giovane. Se ben ricordo, ne presi tante da mio padre il giorno che volevo malmenare un vecchio che mi aveva fatto impazzire per una sola busta da lettera del prezzo di una lira. Avevo quattordici anni. I miei avevano la tabaccheria sull’angolo di Via Volturno. Era d’estate, di primo pomeriggio, e faceva un gran caldo. Ero atteso all’oratorio per la partita; ma l’uomo non si decideva a scegliere il tipo di busta. Spazientito lo minacciai, e mio padre me le suonò.
 Diventando vecchio son diventato perfino più tollerante anche con quelli che si atteggiano a competenti senza esserlo.
 Da qualche parte ho scritto che un buon commerciante deve intuire, nel più breve tempo possibile, oltre al gusto del cliente, il peso del suo portafogli. Ma, signori miei, che fatica al giorno d’oggi! La gente, oltre a non voler spendere, non vuol più accettare consigli, non solo, è talmente educata che, quando entra o esce dal negozio, non ti saluta nemmeno. Se poi t’avvicini mentre guarda la merce esposta e chiedi se vuole un aiuto, si spaventa e ti risponde che è entrata solo per guardare.
 Una volta, la gente si fidava maggiormente del commerciante che non è il filisteo che si crede. Se dà un consiglio non lo dà solo con gli occhi del guadagno. E credete a me: non viola affatto la millantata privacy. Ma veniamo all’episodio del francobollo che ha anticipato, in un certo qual modo, i comportamenti del pubblico dei nostri giorni.
 Alla morte improvvisa di mio padre, mio fratello andò a gestire l’ottica di papà sull’angolo di Via Bertesi a Cremona, e io sospesi di frequentare l’Università di Pavia e andai a dar una mano a mia madre nel negozio di tabaccheria in Corso Mazzini: quello che si trova tra l’arrotino sull’angolo e la cartoleria. 
 Sul lavoro, con mia madre ero in perfetta sintonia: bastava uno sguardo per intenderci sul prezzo e cosa offrire. C’era poi un tacito accordo: lei si dedicava ai clienti della sua età e io ai giovani.
 Un bel mattino verso le dieci, dopo che mia madre aveva servito dei sigari a un vecchietto e alla di lui  moglie una presa di tabacco da fiuto, entrò una signora. Io ero impegnato sul tavolo di fondo, alle prese con un accendino, quando sentii  la donna chiedere un francobollo per l’estero.
 - Scusi! Ma dove va?- chiese gentilmente mia madre.
 - Non faccia tanto la curiosa, mi dia un bollo che vada bene per l’estero.
 Alzai lo sguardo, e la vidi per la prima volta. Al di sotto dei cinquant’anni, con un viso grassottello aveva i fianchi da sembrare una damigiana.
 - Mi scusi! Se invece in Francia, dovesse spedirla per esempio in Argentina o in Australia, la tariffa è ben diversa, - rispose mia madre.
 - Mi dia un francobollo che vada bene per tutto il mondo.
 - Ma signora, come le ho già detto… -  
 - Mamma, - intromettendomi- la signora non vuol far sapere dove spedirà la lettera. Dalle un francobollo come se la spedisse il più lontano possibile... per esempio in Australia o in Argentina. Potrebbe ritornare un’altra volta e ti potrebbe sfuggire il nome del paese.
 - Ecco! Suo figlio ha capito benissimo. Non vorrei far sapere dove sta il mio amore.
 Guardai di nuovo con occhi compassionevoli la donna, trattenendomi dal sorridere, e rinunciando a immaginare quale fosse il suo amore. Mia madre comprendendo al volo la situazione, facendo finta di consultare un prezzario delle poste, dopo avermi fulminato con un’occhiata, sbottò:
 - Trecentottanta.
 Sapevo che la massima tariffa era di centonovanta e che mamma l’aveva raddoppiata. Trattenni il sorriso, sopraffatto dal rancore per la malafede di quella bruttona. Fulminato dalla voglia di dar una mano a mia madre.
 - Mamma, se fossi in te ci metterei anche un altro francobollo da cento lire, per maggior sicurezza … Non si sa mai!... Metti caso che l’amore della signora non riceva la lettera? E poi, non vorrei mai che le Poste Italiane ci rimettessero.
 - Ecco! Mi dia anche quello, - aggiunse la donna.
 - Quant’è?
 - Quattrocentottanta lire! - e aggiunse - Visto che è stata così chiara mi permetto di attaccarglieli, - passando con gioia i cinque francobolli sulla lingua.
Le Poste Italiane brindarono; ma la donna aveva ancora dubbi:
 - Ma è sicura che vadano bene per tutta la Terra?
 Mia madre fulminea: 
 - Come no? ... Con i bolli che ci ho messo, arriverà anche sulla Luna!