lunedì 30 dicembre 2013

L'ULTIMO RIFIUTO


Leggerete ora una perla tratta dal mio primo libro “ Il maestro della leggenda di Sant’Anastasia”. 

 

                                              L’ULTIMO  RIFIUTO


                      Qualcuno ha scritto: - Gli occhi sono lo specchio dell’anima.
                      Qualcuno mi risponda: - Dove stanno le aberrazioni nello specchio o nell’ anima?

  Nel corso degli anni mi sono preso dalle donne la mia buon dose di rifiuti. Che non si creda che l’abbia fatto per divertimento, tanto meno per avvalorare un certo tipo di statistica. Non sono così impudente e di bocca buona da tentare con tutte. Forse con gli anni ho perso un po’ di vergogna, ma non l’orgoglio: è difficile quindi che mi metta in condizioni di ricevere un rifiuto. Ma per quanto si sia accorti e l’esperienza insegni, davanti a forme voluttuose e a occhi appassionati, l’ardore e la golosità sono tali che, dimentico della volubilità femminile, arrischio ancora. E finché non ci vado a sbattere il naso, non rammento mai che non c’è certezza nel chiedere l’assenso di una donna.
 Quest’ultimo rifiuto, che per certi versi mi ricorda il primo, ve lo racconto non tanto per sfogare il mio avvilimento, quanto per sottoporlo al vostro giudizio; e credo che alla fine sarete d’accordo con me nel considerarlo d’una bassezza e d’un bigottismo unici nel loro genere.
 Dovete saper che ogni mattina, prima del lavoro, sorseggio un caffè nel bar di fronte al mio negozio; verso le dieci e mezza, per quietare un certo languorino, mi reco in pasticceria “Alla Rosa”, da Bruno. Là trovo ogni ben di Dio: zaletti, krapfen, brioches; tra l’altro, ho ritrovato il sapore della mia fanciullezza: quello delle veneziane.
 A interrompere la monotonia quotidiana è giunta da poco a frequentare il locale, nei miei stessi orari, una vivace biondina: tutta curve. Un vispo musetto che, con vesti attillate e miti pretese di eleganza, sculetta da impazzire. I suoi occhi mi servono delle zollette d’amore; e io non m’avvedo delle pose smancerose di quella smorfiosa, assorto come sono nello scambiar occhiate, nell’intrecciare sguardi insistenti, provocanti. Lei impallidisce mentr’io avvampo. Pieno d’insidie e di disinganni è questo nostro muto amore. Certo! È considerato poetico, sublime; ma ci rimanda sempre al domani. Un nonnulla lo spegne e uno spasimo l’infiamma. Che pena (o forse che fortuna) soffrire di questi affanni. Eppure nei suoi occhi vedo … ma che dico! Gli occhi disgiunti dal resto del viso sono inespressivi, qualora dovessero subire alterazioni, di fronte a sentimenti o a sensazioni, risulterebbero impercettibili. Errata è quindi la credenza di chi vede in essi odio o amore, esaltazione o serenità.
 Come ottico vado alla ricerca di ametropie e di lenti a contato, ciò nonostante, la mia professionalità non eclissa mai la mia indole di cacciatore. Con quella biondina scambio occhiate prolungate, invitanti, più esplicite di qualunque ardente dichiarazione. A me lasciano il fiato in sospeso, a lei troncano la parola. I suoi occhi alimentano i miei sentimenti e la mia passione. Se accade che sia in ritardo, dà l’impressione di attendermi, come se l’avermi visto le sia d’appagamento. Lo stesso avviene da parte mia: indugio, finché non la vedo arrivare. Io vivo dei suoi sguardi, vivo nella reminiscenza della prima cotta e nell’illusione di un nuovo amore.
 Non esiste più la mia pasticceria, esistono solo i suoi occhi.
 Purtroppo l’altro giorno ho osato salutarla. Non l’avessi fatto? Lei m’ha dato un’occhiata terribile, agghiacciante, come se l’avessi offesa. Ha girato nervosamente il capo dall’altra parte e i nostri occhi non s’incrociano più.
 Che fare? … non ditemi che posso andare a chiedere spiegazioni di questa beffa, di questo improvviso e imprevisto voltafaccia. Che sia arrivato in un momento poco opportuno? O addirittura in ritardo? … Si sa come son fatte le donne: un attimo prima sei sull’altare come un dio, un momento dopo sei nella polvere.
 Ma val la pena di rompersi il capo? Sto pure invecchiando e con gli anni ci si raffredda e si cambia genere di filosofia; si arriva purtroppo a un punto tale che ai “no” ci si fa la triste abitudine. Infine, volete sapere l’ultima? Credo d’aver imparato a perdere perfino con eleganza: ho cambiato pasticceria.

 

domenica 22 dicembre 2013

CHE SIA UNO SCHERZO DELL'AMORE?


  La Natura m’ha fatto allegro: che non è un dono da poco con i tempi che corrono. E che non si creda sia facile ridere di tutto, soprattutto delle cose serie o di quelle che comunemente vengono chiamate tali. Si è spesso invisi e vituperati, di conseguenza, un motivo in più perché critiche e ingiurie arrivino da tutte le parti.
 Come posso reagire? Scrollo le spalle e tiro avanti. Non posso cambiare carattere. Non mi riesce frenare gli impulsi e i pruriti di questa mia indole bizzarra i cui bisogni trovano sfogo anche nella beffa.
  In quell’anno, il Carnevale sarebbe arrivato presto, e nel programmarlo, avrei dovuto tener conto di Giovanna, una cara amica di mia moglie. L'ordine era stato chiaro e perentorio.
 A quei tempi, Giovanna era una giovane in crisi sentimentale, in cerca di lavoro, e la solitudine l’aveva portata ad attaccarsi a noi. Sotto il metro e settanta, con il viso da bambolotto, aveva il pregio di due gambe lunghe e ben tornite; purtroppo sul davanti era piatta, piatta come un asse da stiro. Madre Natura s’era proprio dimenticata di foggiare il seno a Giovanna: glielo aveva solo disegnato.
  Come sarebbe stata se avesse avuto un bel paio di zucche?(1)
 Già! A pensarci bene, poteva essere un modo per mascherarsi nelle feste di carnevale. Era un’idea. E che idea! L’avrei presentata poi a Franco: uno scapolo di trentacinque anni, libertino e affamato di tette. Caspita, che tiro gli avrei giocato!
  Giorno dopo giorno inculcai le mie intenzioni a mia moglie, ovviamente senza far riferimenti a Franco. Non fu facile convincere Teresa a cattivarsi la fiducia di Giovanna e invogliarla a indossare un posticcio. Con insistenza e molta pazienza arrivai allo scopo. Una parrucca bionda, una camicetta attillata, delle vesti svolazzanti, e Marilyn Monroe rinasceva sotto l’abile tocco di due donne scatenate e divertite. Giovanna era rifiorita: le forme prosperose della bionda hollywoodiana le conferivano un’attrattiva irresistibile. Sarebbe stato impossibile riconoscerla sotto quelle vesti.
  Arrivò il giovedì grasso. All’ingresso della discoteca, costrinsi Giovanna a entrare con Teresa. Con un pretesto ritornai all’automobile: non volevo farmi vedere subito da Franco e dar l’impressione a mia moglie d’aver combinato l’incontro.
Nella sala del veglione, nonostante l’atmosfera carnevalesca e la vivacità delle maschere, s'erano formati capannelli. In uno intravidi Franco mascherato da diavolo rosso, mentre Giovanna s’era scatenata nel ballo e già trionfava. Oh, dimenticavo! Io e mia moglie eravamo vestiti da ovetti: io portavo cresta e bargigli più grandi, mia moglie più piccoli.
  Con maestria orchestrai l’incontro fra Tersicore e il suo Apollo. Da quel momento, il figlio di Latona le fu sempre attorno come un cane che difende il proprio osso. Un comune amico mi si avvicinò e mi fece notare come Franco fosse attaccato a quei magnifici guanciali. Sottovoce risposi ch’era tutto un’impalcatura: ch'erano finti.
 Dopo un attimo, la sala seguì con occhi maliziosi e indiscreti l’attacco sfrenato del diavolo alle curve della bionda attrice. Lei cercava sempre di svincolarsi, lui, come una piovra, di stringerla.
 Non mi sono mai divertito così tanto!
 Il giorno dopo, Giovanna telefonò a Teresa chiedendo informazioni sul cavaliere della sera precedente; espresse poi il timore di svelare l’inganno che le aveva dato tanto successo. Mia moglie le suggerì di lasciarlo perdere, che, se le intenzioni fossero state serie, l’uomo si sarebbe fatto avanti comunque, e di certo, avrebbe tollerato qualche difettuccio.
 Teresa mi confidò le sue preoccupazioni, io, al contrario, cantavo vittoria. Mi raffiguravo l’espressione di Franco nel vedere due capezzoli senza polpa. Potevo pretendere forse qualcosa di più?
  Gli amici vanno e vengono; si perdono per noia e per qualche chiacchiera in più che le brave persone sibilano alle spalle. Forse per quest’ultima ragione persi di vista sia Franco che Giovanna.
 Il tempo passa. Si sposarono dopo un paio d’anni. E la storia sarebbe finita qui, se l’altro giorno non mi fossi voltato  per ammirare in Corso Sant’Anastasia un bel tocco di donna. Spingeva davanti a sé una carrozzina con dentro un marmocchio e tenendo per mano un bimbo di tre o quattro anni. S’accorse di me, mi salutò e sorrise.
 Era Giovanna: s’era fatta bionda e aveva messo qualche chilo in più. Andai a salutarla; lei m’accolse con grandi sorrisi … rideva, e come rideva! Da una camicetta scollata mi fece intravedere un paio di zucche ch’erano una meraviglia.
 Mah! a quei tempi di silicone non se ne parlava ancora! Cosa sarà stato allora? Forse la maternità? L'allattamento? Di sicuro non la Matematica con il suo calcolo delle probabilità… Ma che dall’amore per lo scherzo, sia inciampato in uno scherzo d’amore?

 
(1)   Zucche, in questo caso seni.

 

 

 

 

domenica 8 dicembre 2013

IL BALCONE


  Per la miseria! Ma che ci fa quella donna in culottes sul balcone? Stende i panni? Ma dove? qui?… proprio qui in Corso Sant’Anastasia?
 Mi guardo attorno alla ricerca se qualcun altro osservi ciò che sto vedendo. La via purtroppo è deserta: scorgo una vecchietta assorta in preghiera davanti alla Madonnina che c’è sull’angolo di Palazzo Maffei e un crocchio di chiacchieroni all’altezza di Via delle Fogge. Eppure son desto e non soffro di allucinazioni. Lei è lì al balcone che con flemma gioiosa stende la sua biancheria. Bionda, sui vent’anni, tedesca forse. Una bambola bianca come il latte, dalle curve armoniose e dai seni turgidi. Che sia un nuovo modo d’interpretare Shakespeare? Ma quanto sono sciocco: è primavera!
  Oggi è stata la prima giornata bella d’una primavera incerta e, sebbene siano le diciannove e trenta e siano scese le prime ombre, c’è ancora nell’aria un piacevole tepore. Ma porca vacca! Che fa? Rientra?… E adesso cosa faccio? Finisco di chiudere il negozio o…Beh! Capiti pure quel che vuole, io da qui non mi muovo. Aspetterò ancora un po’: tanto ne ho sprecato di tempo.
 Riflettiamo un attimo con calma: mi sono chinato per depositare a terra le guide su cui scorrono i cancelli di chiusura del negozio e, quando mi sono girato… ma il balcone non cade nel raggio d’azione del mio campo visivo. È troppo in alto e discosto perché il movimento di qualcuno che ci sta sopra possa richiamarne l’attenzione. Non saprei spiegare come mai mi sia voltato, se sia stato per puro caso o per istinto. Forse a causa di quel sesto senso che ci avverte d’un pericolo? Che ci fa sentire addosso uno sguardo? Che ci guida verso i fatti singolari che si verificano accanto a noi?
 Il balcone in questione si trova sopra al negozio con la scritta Tortellini. Sopra questa bottega, che produce e vende pasta fresca in centro qui a Verona, si ergono tre finestre, e quella di mezzo ha questo aggetto con ringhiera di ferro. Appartengono all’albergo Rosa il cui ingresso è sito in Vicolo Raggiri: un nome che di per sé è tutto un programma e che onora, in ogni caso, lo spirito dei nostri padri. Quelli sì che ci sapevano fare!
 Una donna al balcone è uno degli emblemi della nostra città, ma questa è in mutande, potrebbe andar bene per uno posto di villeggiatura. In una via centrale è una esibizione oppure una provocazione. Per cortesia, non mi si venga a dire ora che l’atteggiamento è da disinibita. Oh! Se ci fosse qui il mio Toni, lui la giudicherebbe una bella sbadatona (1); poi comincerebbe a dire: - Anche a me una volta…
 Eccola di nuovo! Eh… no no!  Non è distratta. Lei lo sa d’essere in mutande e sa pure d’essere bella. Ma guarda con che cura stende le camicette! Se ne potrebbe fare uno spot televisivo. Sarebbe di certo migliore di quello vecchio di Corrado o di quell’altro che ti vuole offrire i due fustini. Ha più senso usare il corpo femminile in questi casi piuttosto che sfruttarlo per vendere automobili o abbonamenti telefonici. Fresca, ben tornita, bianca e rossa come una mela nostrana sarebbe l’interprete ideale per raffigurare una massaia. Rientra.
 Non s'è accorta della mia presenza. Un vero peccato! Se i nostri occhi si fossero incrociati, sarebbe arrossita,forse. E se m'avesse sorriso?                                            
 È  meglio non mettersi certi grilli in testa. Se penso poi che questo spettacolo si svolge sopra il capo di Guerrino, il proprietario del negozio che sta sotto, proprio a lui doveva capitare, a lui che diventa matto quando vede una donna. Glielo dovrò raccontare e, per farlo soffrir di più, spesso glielo rammenterò.
 Sfreccia un ragazzo in bicicletta, pigia sui pedali e tiene il capo chino sul manubrio, dopo un attimo sparisce. Bresciani, l’orafo, svuota le vetrine. La commessa di Casabella, il negozio di casalinghi, chiude i cancelli e felice se ne va. I miei sguardi vanno dal balcone alla via, dalla via al balcone. Soffro per l’attesa. Sarebbe stato meglio che lei m’avesse notato, saprei affrontare a testa alta la sua nuova uscita e potrei sostenere con fierezza un suo sguardo. Mi sento a disagio: non so dire se soffro dei timori del guardone o dei rimorsi della persona onesta.
 Sul mio marciapiede sta arrivando un uomo, deve avere suppergiù la mia età e la sua aria non mi sembra nuova. Da tutto l’insieme deve essere pure simpatico; lo inviterò a guardare il balcone. Ma se quella bellezza poi non esce? Eh!... Deve uscire: altrimenti che senso avrebbe il detto” Non c’è due senza tre”. Non so bene se ho bisogno d’un complice o d’un aiuto. Mah!
 Come m’arriva vicino lo fermo. È un rosso: un patatone dalle guance di carne fresca.
 “Ma sì!- mi dico- fa lo stesso”.
 E gentilmente:- Mi perdoni, può fermarsi un attimo ad ammirare quel balcone?
 - Quale?
 - Quello lì.
 - E perché mai?… Non ci trovo nulla di particolare.
 - Per il momento, ma aspetti un po’ e si godrà uno spettacolo indimenticabile …Mi creda.            
 L’uomo, dopo un sorriso compiacente, si morsica un labbro e mi fissa intensamente negli occhi, getta poi uno sguardo al balcone; ritorna a fissarmi e a guardare il balcone, sorpreso e incuriosito al tempo stesso.
 Non è passato un minuto che sul balcone appare un bel pezzo d’uomo con in mano una camicia gocciolante. Altro che distratto: è come l’ha fatto la sua mamma.
 Il mio vicino fa un balzo all’indietro, abbandona l’aria perplessa e mi squadra come se volesse accopparmi. Atteggiando poi il viso al disgusto e al disprezzo, con voce aspra e forte:
 - Ma non si vergogna?




      (1) Molto sbadata.


sabato 30 novembre 2013

FELLATIO IN ORE


  Questi modesti racconti mi son venuti in mente e li ho scritti nell’ordine (o nel disordine) in cui li ho pubblicati.
 Lasciatemi respirare un attimo e aver tempo di metterci mano per rimpolparli e abbellirli. Cercherò di condirli con qualche pizzico di sale e pepe in più, anche se, per quel che ne so, è necessario che il cibo sia già di qualità. In un tempo successivo tenterò di riordinarli. Lo devo, oltre ai miei lettori, per onorare Google che ogni tanto mi  riserva sul mio blog “ enzo-monti. blogspot. com” una pagina intera. Dopo quest’ultimo racconto, ne metterò in rete un paio, scritti negli anni Ottanta e mai pubblicati. Ascolterò volentieri critiche e commenti da parte vostra.
 

FELLATIO IN ORE (1) 

  Ahi, ahi! Su Facebook se ne vedono delle belle!
 Pochi giorni fa, mi capitò di vedere una scuola di sesso orale. Beh, non credevo ai miei occhi! Nella fotografia era ritratta una tavolata di fanciulle golose impegnate a ciucciare falli di gomma. Mi sarebbe piaciuto vedere in azione l'insegnante, ma purtroppo non l'hanno mostrata.
 Chiesi a Matteo, il nostro aiutante, se avesse preso una botta in testa per pubblicare roba del genere. Cadde dalle nuvole. In effetti, al controllo che feci poco dopo, era stato il suo amico Samuele che gli aveva inviato un link in cui affermava che a Matteo piaceva quella pubblicazione.
 Suggerito da questo episodio, mi ritornano in mente un paio di fatti più che piacevoli. Già la penna freme e li vuole descrivere ... in che modo? Né più né meno di come li ho vissuti: è naturale!
 Verso le ventitré di tanti anni fa, me ne tornavo a casa dopo aver giocato al circolo un paio di partite a scacchi quando, passando davanti al bar di Sinico in Via Leoni, intravidi un paio di amici che felicemente brindavano. Non avevo bisogno d'inviti. Entrai e partecipai alla loro gioia. Se avessi tirato dritto mi sarei perso una serata memorabile.
 Nella mia lunga carriera di bevitore non mi era mai capitato di brindare a una sconfitta. Eppure, quella notte festeggiai e brindai a un pompino(1) non portato a termine.
 Beh, che c'è? Dov'è la volgarità o lo scandalo se chiamo questo atto con un termine che usiamo comunemente? Forse potevo scrivere qualche spiritoso eufemismo oppure qualche sofisticata metafora invece di pompino? Ma l'avrebbero capita tutti? Lasciamo quindi ai bigotti e ai bacchettoni sputar le loro infelici sentenze e tiriamo avanti.
 Otello e il suo inseparabile amico Polpa, passando da un bar all’altro, avevano incontrato una comune amica. Di quella signora, sposata con un becco più vecchio di lei, ne ho scordato il nome. Potrei rintracciare un paio di amici che forse se lo ricordano ancora, ma sono talmente pettegoli e vigliacchi che il giorno dopo lo saprebbe tutta Verona. Chiameremo Fernanda questa cara signora.  Sotto il metro e settanta, snella, rossiccia, dal viso scarno e rugoso, dalle gambe ben fatte, portava tutti i sintomi in cui si riconosce una donna sensuale. Di lei ho un bellissimo ricordo, e ne rammento anche alcuni comportamenti singolari.
 Quando veniva in compagnia, metteva gonne con lunghi spacchi che arrivavano all'inguine, vantandosi poi di non portar mutande e pronta all’uso. Al ballerino s’avvolgeva come una serpe, come se ballasse la Lambada. Che meraviglia! E che piacere per il nostro affare!(2) Credo che la si potesse definire una ninfomane. Non vedo altri termini o giustificazione per appagare quella sua fame di sesso. 
 Otello era allora un ultra sessantenne in pensione, mentre Polpa era più giovane d’una decina d’anni.  Dopo che i tre ebbero bevuto un paio di goti e mangiato qualche bocconcino, i miei amici, pieni come uova ma da veri cavalieri, si offrirono di dare un passaggio in macchina alla signora. Alla guida il Polpa, sui sedili posteriori Otello e Fernanda, pronta per fare un servizio al suo e nostro amico.
 Per quarantadue kilometri andarono in giro per la città senza alcun profitto. Esausti, la portarono a casa. Raccontavano inoltre che ci fu un attimo di panico per una brusca frenata dovendo evitare un cretino che aveva tagliato la strada. Ci mancava che Otello rimanesse monco! Ebbri, ridevano e bevevano: ridevano come matti più per lo scampato pericolo che per lo sconforto d'aver fatto cilecca. Che serata fantastica!
 Di tutt’altra musica è l’episodio che segue.
 Prima degli anni Ottanta, tra il mio negozio e quello degli arrotini, ne esisteva uno piccolo di profumeria la cui proprietaria era una certa Raffaella. Una botticella mora che, nonostante avesse superato i cinquanta, millantava d’essere corteggiata da tanti uomini, mentre nella realtà era un’angosciante zitella dalla voce squillante e che da giovane aveva studiato canto, tant’è vero che veniva soprannominata La Turandot.
 Un bel giorno, al bar di fronte ai nostri negozi e gestito da Armando, manifestando i suoi timori si vantava d’essere seguita di sera da un timido ammiratore. Ascoltava le sue lamentele Alice che, incuriosita, s’intromise nel discorso chiedendo:
 - Mi scusi:  ma su quale marciapiede l’insegue quell’uomo?... Perché?... Ma io l'invoglierei, e a forza d’andar avanti e indietro, ci lascerei un solco su quel marciapiede.
 Alice, di qualche anno più vecchia, più o meno grassa e bassa come Raffaella, portava capelli biondi ossigenati ed era orba come uno scopeton (3). Mia cliente e miope attorno alle undici diottrie: il che vuol dire che, senza occhiali e con quel grosso difetto di vista, dopo dieci centimetri dal naso non vedeva più nulla. E, come se non bastasse, a quei tempi gli occhiali erano veramente orribili, pesanti, con lenti spesse e, oltre a intristire, non gli permettevano di truccarsi in modo decente, tant'è vero che s'imbrattava in modo orribile. Per concludere: era brutta come la fame e contro ogni tentazione. Tuttavia, aveva condotto al cimitero un paio di mariti e il suo ultimo compagno.
 Una mattina, all’orario d'apertura del negozio, ero al bar, sempre quello di fronte ai nostri negozi, a gustarmi il primo caffè quando entrò Alice. Dietro al banco Armando e sua moglie Gemma, in fondo al locale un uomo in piedi che leggeva il giornale, Alice chiese ai coniugi:
 - Fatemi un buon caffè! Aggiustatemi la bocca perché ho una mascella fuori posto per averlo ciucciato iersera per più d’un’ora.
 Un gelo polare avvolse l’ambiente. Armando si voltò; Gemma sgranò tanto d'occhi vergognosamente stupita di quella uscita; volò solo il fruscio d’un giornale incuriosito che s'abbassava. Ruppi quel silenzio da tomba con:
 - Ma Alice, cosa ha succhiato? 
 Fessurando gli occhi come fanno i miopi:
  - Monti, non fassa tanto el furbo!(4) L’ha capì benissimo.
 Altro silenzio imbarazzante.
 D'accordo che lo stupore è dello sciocco, ma davanti a certe sorprese sia un'intelligenza feconda che una fantasia fertile non arrivano a prevedere ciò che può succedere ancora. Infatti, non era finita. Ne arrivò una ancor più grossa e mai sentita così grassa pronunciata da una donna.
 Forse uno sfogo, oppure una semplice constatazione, addirittura il rimpianto dei bei tempi passati, chi lo sa; sta di fatto che sentimmo tutti chiaramente:
  - Sarà pran brutto el vostro mestier … in compenso, el  gha de belo che l’è saporito! (5)

  

(1)    Sesso orale.
(2)    Pene.
(3)    Un tipo di sardina.
(4)    Faccia tanto il furbo.
(5)    Sarà gran brutto il vostro pene … in compenso, ha di bello che è saporito!

 

lunedì 25 novembre 2013

IL FIUTO DELLE DONNE

  Non c'è dubbio che  le donne abbiano maggior fiuto di noi maschi nelle faccende d’amore.
 Al giorno d'oggi, le donne poi sono più istruite, meno inibite, più coraggiose, più sfacciate e anche più... di quelle d'una volta, avendo cancellato dalle loro guance le sfumature di rosso. Facciamo quindi più fatica a intuire ciò che hanno nelle loro belle testoline.
 Anni fa, mi trovavo a cena con la mia compagnia presso il ristorante del Caffè Dante; oltre a qualche coppia di amici, sedevano alla mia stessa tavolata un gruppo di commensali a me sconosciuti, nonostante fossero amici di alcuni di noi. Tra questi, spiccava un’avvenente signora che, da ciò che raccontava il mio vicino di tavolo, doveva essere arrivata senza un compagno, come s’usa dire oggigiorno. Dallo stesso pettegolo appresi poi che la signora era una separata. E il mio appetito crebbe.
 Pur non essendo una meraviglia d'uomo, mi fu facile agganciarla. Del resto, non avevo concorrenza, oltre a essere tutti più vecchi, erano, come lo sono tutti i miei amici: delle "ossa da morto". Non disdegnò i miei complimenti, anzi, stava al gioco. Mi feci avanti e mi appartai con lei un paio di volte soffermandomi al banco del bar. Alla terza volta, arrivò mia moglie che, dall’ingresso tra la sala del ristorante e il bar, mi fece un cenno per avvisarmi che la portata era arrivata in tavola.
 M’ero appena seduto quando da dietro arrivò una comune amica, appoggiò una mano sulla mia spalla e l’altra su quella di mia moglie, chinò il capo, e con l’atteggiamento di chi ti vuol fare una confidenza:
 - Caro Monti, ti faccio i miei complimenti: hai una moglie veramente intelligente: ti fa credere d’essere libero perché ti dà spago, e tu non t’accorgi d’essere il suo aquilone. Lei ti lascia andare, allenta il filo e ti lascia andare, ma al momento opportuno dà un paio di colpi e ti tira giù.
 Teresa ringraziò con un sorriso; a me non rimase altro che grattarmi il capo e qualcos'altro.
 Posso liberamente dichiarare, senza tema di smentita, che mia moglie non è stata mai gelosa più di tanto; mentre come cane da guardia avevo mia madre. Un vero mastino con le orecchie sempre ritte. 
 Dopo sposato, per il mio bene e per evitarmi grossi guai, s’intrometteva sfacciatamente usando  queste stesse parole:
 - È sposato felicemente con una gran bella signora e ha dei bambini bellissimi,- e, a seconda dei tempi e delle occasioni, li elencava.
 Detestava la Luigina, una mia cliente emiliana, separata, belloccia, di qualche anno più vecchia che, alla mia richiesta per cosa le servissero gli occhiali, la sentì dire:
 - I me serve per contarme i pei, (2) - senza ritegno e con l’aria di prendermi in giro.
 E la Luigina deve averne sentite quattro, per il semplice motivo che non entrava più in negozio, se c’era mia madre.
 Quando poi arrivava Dora, cambiava colore e se non diventava viola poco ci mancava. Questa ragazza  bellissima e dagli atteggiamenti provocanti indossava quasi sempre camicette scollate, trasparenti e senza reggiseno come imponeva a quel tempo la moda. Con il volto alterato e con gli occhi fuori dalle orbite, mia madre mi si parava davanti nascondendomela; poi, con il cipiglio da comandante in capo, mi ordinava:
 - Hanno telefonato che ti aspettano  in banca, -  e io dovevo obbedire. E secondo voi, che altro potevo fare?
 Eh sì! le donne vedono molto più lontano di noi maschi. E non solo. Fiutano il pericolo ancor prima che si presenti. E mia madre lo possedeva in larga misura. Su questo argomento, mi piace ricordare ciò che accadde alla fine degli anni Cinquanta, quando la Merlin chiuse le famose case. Arrivò in tabaccheria, quella all’angolo di Via Volturno a Cremona, una di quelle signore che erano state sfrattate. Comprava le sigarette e se ne accendeva una, sfacciatamente si sedeva poi sul tavolino dove la gente sostava qualche attimo per scrivere cartoline o attaccare francobolli. Non contenta, accavallava poi le gambe mettendole in bella mostra. Mia madre ingoiò la sua presenza per un paio di settimane, e pur sapendo che avrebbe perso la cliente, un bel giorno esplose.
 - Signorina cara, non so se lei vuol catturare i miei figli o mio marito. Qui lei non può parcheggiare, l’unico posto in cui può andare a fumarsi la sigaretta sarebbe in strada o, se meglio crede, sul viale.
 Da quel momento, quel tipo di donne ascoltarono il consiglio di mia madre e andarono a battere sui viali.
 

 

(1)  Questo qui è capace d’andare solo a puttane.
(2)  Contarmi i peli.

 

 

giovedì 14 novembre 2013

GIOVANNA


  A Verona, all’uscita della breve via che unisce Piazza dei Signori con Piazza delle Erbe, proprio di fronte all’arco della Costa, si trovavano, fino a pochi anni fa, due banchi di frutta e verdura. Uno gestito dalla vecchia Concettina che, dopo aver venduto per anni selvaggina e uccellini, preparava e vendeva ultimamente fondi di carciofi, l’altro dalla nostra Giovanna.
 Piccola di statura, bionda, muso da volpona, fianchi grandi, con il modo di fare della popolana, ma con il cuore sensibile e generoso della signora, era la regina incontrastata della piazza.
 Possedeva ironia e umorismo così pungenti da lasciarci di stucco. Le sue battute, tra le più folgoranti che abbia sentito, pur viaggiando sempre sulla stessa linea risultavano davvero tremende. Ancora adesso, anche se son passati più d’una decina d’anni da quando ha venduto il banco ed è andata in pensione, se chiedete informazioni nei bar che s’affacciano sulla piazza, oltre a magnificarla, vi diranno che le sue espressioni, spiritose e coloratissime, rispettavano l'aria popolare della piazza.
 Comincerò con l'incontro di cui sono stato testimone.
 Negli anni Novanta, mi trovavo al banco del Caffè Dante in Piazza dei Signori con lei, Toni, i coniugi Cavalca che gustavamo prima delle tredici il nostro bianchetto, quando dall’ingresso di Via delle Fogge entrò Alberto Sordi. Vista l’allegra compagnia si fermò a salutarci.
  - El me scusa, salo, ma fasso l’ortolana e gho le mani sporche(1), - e si pulì le mani nel grembiule, prima di stringergliele.
 Al nostro Albertone non parve vero. Oltre a rallegrarsi di questo incontro, confessò che la propria madre era anch’ella un’ortolana, e si mise a raccontare, da comico consumato, alcuni episodi divertenti. Ahi, ahi! povera memoria. Mi dispiace non saperne citarne almeno uno. Ricordo solo che per ben venti minuti rimase con noi, e che per ben due volte vennero i camerieri a richiamarlo perché atteso nella sala principale del ristorante. Il bello fu che le sue attenzioni furono solo per Giovanna. 
 Per assistere al passaggio della Regina Madre d’Inghilterra, con Luciano Pelizzari fui ospite d’una amica di questo pittore sulla più bella terrazza di Casa Mazzanti, quella che s'affaccia su Piazza delle Erbe, posta proprio sopra al Volto Barbaro. Oltre a goderci lo splendido panorama della piazza, ci gustammo la passeggiata di questa quasi centenaria regina che, vestita con un soprabito rosa e con un cappellino con i fiori, avrebbe richiamato la stessa curiosità, senza bisogno d'essre protetta da transenne e da guardie del corpo. La regina, che probabilmente non aveva mai fatto in vita sua la spesa, curiosò al banco della Giovanna, e l’ortolana su un fazzoletto di carta le offrì un persego(2). Arrivarono le guardie della vigilanza e la regina si ritirò, di sicuro con l'acquolina in bocca.
 Ben diverso fu un altro incontro. Per il tempo e per il cassetto era stata una gran brutta giornata di fine ottobre, quando verso sera giunse una modesta signora sulla sessantina davanti al banco che ammirava la sua frutta. Dietro di lei due uomini in abito scuro che s'erano fermati nello steso istante a curiosare, e a cui lei non diede bada. 
 A quella povera diavola le offrì un racimolo.
 - Lo prenda! l’ho appena lavata. Sentirà com’è dolce.
 La mattina del giorno dopo, si trovava al bar Filippini che si gustava la brioche con il cappuccino, quando arrivò di corsa una sua vicina di banco:
 - Giovanna, ghè to marì al banco chel te vol, e ghè anca du omeni che i te cerca(3).
 Dopo aver ingoiato il resto della brioche e inciampato in un paio di sedie ai tavoli del plateatico, come vide i due uomini in abito scuro pensò subito “Oddio! La Finanza.”
 Con la tremarella si presentò a quei signori che le consegnarono una busta e, dopo un cenno di saluto, se ne andarono. Riavutasi dalla la sorpresa, ancora tremante aprì la busta: conteneva un elegante biglietto con scritto: “ Susanna Agnelli, commossa, ringrazia”.
E lei pensò: ”Casso, la potea lassarme pagà almen un cafè, ma non per l’ua, ma per el spavent che l’ha m’ha fato ciapar”(4).
 Nel mondo però, non tutti la pensano allo stesso modo. Si attirava le antipatie dei “piassaroti”(5)perché in più occasioni alla solita domanda di Giulio Andreotti che, di ritorno dalla Prefettura, si soffermava davanti al suo banco chiedendo:
 - Come va?
 - Bene! Onorevole, – rispondeva sempre.
 - Che casso ghe ne frega a lu, se la va mal o la va ben. -  incazzatissimi i suoi colleghi le dicevano: - Te ghè da dirghe che la va mal(6), se no, l’aumenta le tasse.
 Con la verdura e la frutta è facile fare delle allusioni e dire spiritosaggini. Con carote, finocchi, cetrioli, e poi ancora: pomi, maroni(7), prugne, banane, senza parlare poi del fico insieme alla sua gentil signora, la fantasia viaggia.
 Alla signora che le faceva notare che aveva i cetrioli molli:
 - Signora, averghene(8) a casa de quei moli lì.
 D’inverno, quando faceva freddo e le foglie delle verze s’increspavano, stropicciandosi le mani:
 - Siore, la verza bona ama il giaso come la frittola ama il casso(9).
  Ma non solo con frutta e verdura.
 Alla zingara che, cedendo a un’insistenza snervante, le aveva dato da leggere la mano, e che le aveva pronosticato che sarebbe arrivata una bella notizia:
 - Figurate se incò(10) me ne va  una giusta. Varda chi vien(11), - e indicò il marito in arrivo.
 Quando era più giovane, un giorno che s'era chinata a sistemare un cesto, le si avvicinò un vecchio che le si appoggiò; voltandosi, lo bruciò con:
  - Ma galo el portafoglio pien(12)?
 Non sempre le andava tutto liscio. Sul far del mezzogiorno, arrivò una volta una coppia di giapponesi. Alla signora, dagli occhi a mandorla, dal viso di luna piena e dal color di giada, che continuava a palpare le albicocche, si mise le mani sui fianchi e con la faccia inviperita:
 - Che la vaca che t’ha cagà, vedemo quando te la finisi de palparle(13).
 Alzando poi il braccio destro, con una mano sul fianco e con l'altra indicando il marito ch’era molto più vecchio e secco come un baccalà:
  - Varda, a forsa de palparlo, come te l’é ridoto quel povero can lì(14).
 La giapponesina alzò lo sguardo dal banco, e senza guardarsi attorno, prese per mano il marito e se ne andò.
 Mentre Giovanna tirava un respiro di sollievo, la moglie d’un noto avvocato che aveva assistito a tutta la scena:
 - Giovanna, questi giapponesi abitano qui a Verona da vent’ anni, e la signora capisce e parla bene anche il nostro dialetto.
 

(1)    Mi scusi, lo sa, faccio l’ortolana e ho le mani sporche.  
(2)    Pesca.
(3)    C’è al banco tuo marito che ti vuole, e ci sono anche due uomini che ti cercano.
(4)    Poteva lasciarmi pagato almeno un caffè, ma non per l’uva, ma per lo spavento che mi ha fatto prendere.
(5)    Uomini che lavorano in piazza.
(6)    Che cosa gliene importa a lui se va bene o va male. Gli devi dire che va male.
(7)  Castagne.
(8)  Averne.
(9)  La verza buona ama il ghiaccio come .
(10)  Oggi.
(11)  Guarda chi viene.
(12)  Ma ha il portafogli pieno?
(13)  Quella vacca che ti ha generato, vediamo quando la finisci di palpare.
(14)  Guarda a forza di palparlo, come l’hai ridotto quel povero cane lì.

martedì 5 novembre 2013

LA FESTA DELLE MATRICOLE


  Sfido i giovani d'oggi a riconoscere quale tra le nostre città è anche sede universitaria. 
 Prima degli anni Sessanta, saltava all’occhio che le bronzee statue equestri di alcune piazze  presentavano i sotto pancia dei cavalli così lustri che di più non si poteva. Tutto il merito andava alle matricole universitarie. Era una manutenzione ordinaria che si faceva in autunno all’inizio di ogni anno accademico.
 Visto che al giorno d'oggi queste feste non si fanno più, spenderò qualche parola.
 Ora mi vergogno un po', ma a Pavia, per merito o colpa di Roberto di Soresina, con il soprannome di Za firmavo i papiri e, nonostante fossi piccolo e avessi solo due bolli, essendo iscritto al secondo anno, incutevo terrore tra le matricole.
 Il papiro non era altro che un foglio da disegno su cui erano scritte, sotto forma di leggi, delle ignobili sconcezze; al tempo stesso, era pieno di disegni porno, raffiguranti giochi erotici, falli e vagine che sbordavano perfino dal foglio. E con più era ricco di oscenità, più era di pregio. Certo che era da tenersi lontano dai genitori, soprattutto se si era delle sante verginelle.
Con i ragazzi, bastava che il loro papiro, piegato in quattro parti e usato come lascia passare, fosse ben tenuto e ben disegnato perché apponessi gratuitamente anche la mia firma. Con le ragazze, ero d'altra pasta. Questo diverso comportamento non lo dovevo a un capriccio o a una particolare esigenza della mia natura perversa, ma a una forma di esibizionismo: volevo farmi bello agli occhi degli amici più vecchi.
 La prima ragazza che mi capitò tra le grinfie era un po' bruttina e, oltre all'amorfo aspetto, era vestita anche da educanda. Venne a consegnarsi con venti pacchetti di sigarette nel nostro covo: una vecchia pasticceria nei pressi della stazione ferroviaria. Purtroppo, non intendendosene o forse anche per risparmiare, non aveva capito che volevamo le Nazionali Esportazioni e non le semplici Nazionali. Il più vecchio dei miei amici mi ordinò:
 - Dobbiamo fare bella figura, dille qualcosa!
 Assumendo un’aria severa e cattiva:
 - Ehi, senti un po'!... Guardaci bene in faccia! Lo sai chi siamo?
 - Studenti più vecchi,- con un fil di voce.
 - E allora? Per quale motivo ci tratti da operai? - e alzando poi il tono - Ti sembriamo pezzenti che hanno bisogno per i nostri vizi di chiederti la carità?
 - No!
 - Non ho sentito bene!... Ripetilo!
 - No!
 -  Ahi, sei messa proprio male! ... Adesso, ritorni dal tabaccaio e ti fai cambiare queste schifezze con dieci pacchetti di Nazionali Esportazione e, per punizione, con altri dieci pacchetti di sigarette americane: Camel o Lucky Strike. E non fiatare!... Per noi maschietti. Hai capito? - e gridando a più non posso  - Va via!... Sparisci!
 Riuscii a spaventarla a morte: tremava tutta, poveretta! Che recitasse? Del resto, con lacrime o smorfie la loro arte è sempre quella di recitare.
 Le Feste delle matricole si svolgevano di solito in qualche osteria o trattoria a buon mercato, dove timidi studenti impauriti offrivano la cena e qualche pacchetto di sigarette a noi anziani in cambio del papiro. I ragazzi si assoggettavano a interrogatori o a processi, e subito dopo venivano condannati a pene che al giorno d’oggi e in alcuni casi, ohi, ohi.. si sentiva puzza di bullismo. Beh, non è mai morto nessuno, anche perché si calcava la mano solo con i più furbetti o con chi aveva la puzza sotto il naso. Troppo facile e da stupidi prendersela con i più deboli.
 Ai miei tempi, le ragazze, chiuse in cassa da genitori previdenti e per il fatto che dovevano studiare, avevano poco tempo da dedicare ai ragazzi. Erano in gran parte ancora vergini e inorridivano sentir parlare di sesso, pur sapendola lunga. Nonostante le nostre insistenze , non c'è mai stata qualcuna che avesse confessato d'averlo visto, preso in mano oppure solo sognato questo benedetto nostro membro.
 Non si badava tanto alle loro risposte. Le più cocciute e le più carine, in ogni caso, erano condannate a lustrare i sotto pancia di quei magnifici stalloni.
 Con i ragazzi, c’era poco da divertirsi, ma con le ragazze le battute e le risate sgorgavano cristalline come l’acqua da una fonte montana.
 - Va piano! è un oggetto delicato. Non così in fretta. In punta, mi raccomando! in punta! Così, brava! Più passione! Attenta! gli stai facendo una sega! (1)  - e si davano altri ordini e suggerimenti  che scandalizzavano le bigotte che passavano o sostavano nei paraggi.
 Rischiavamo grosso. C’era poi il pericolo che qualche ragazza, durante questo lavoro, scivolasse giù dal piedistallo con il pericolo di farsi del male.
Di quel periodo, ho un solo un rimpianto: quello di non essere stato presente all’interrogatorio della mia amica Elena.
 I miei compagni, sapendo che conoscevo fin dal liceo quella bella e simpatica ragazza, temevano che mi intromettessi e venissi in suo aiuto. A mia insaputa e con l’ inganno, in cinque o sei riuscirono a condurla nel loro appartamento.
 Dopo averla fatta accomodare su un divano, iniziarono con le prime domande. Secondo la ricostruzione fattami da Roberto e Tecchio, verso la fine si fecero prendere  dal gioco e calcarono la mano: pretesero che confessasse che si masturbava.
 Erano andati un po’ fuori dalle righe: abusi che al giorno d’oggi sarebbero da tribunale. 
 Da ciò che mi raccontarono, ogni volta che Elena negava, veniva spinta con violenza contro il divano. Dopo sette o otto volte che si sentiva ripetere : - Confessa!... Confessa! - Lei cedette.
 Ma non finì semplicemente in questo modo. Ad alta voce, un balengo le chiese ancora:
 - Con quale dito?
 Per timore di sbattere altre volte il capo contro lo schienale del divano e per mettere fine a quella  tortura, ingenuamente alzò il medio della mano destra. Esplose la gioia!
 Nella storia scritta o tramandata, non è mai successo che un dito sia stato baciato con più voluttà e contemporaneamente da così tante bocche. 

 

 (1)   Masturbazione maschile.


 

 

lunedì 28 ottobre 2013

CHIUSA NEL CESSO


 Tutta la compagnia: circa una trentina di persone, era stata invitata in una villa della Valpantena. Che cosa si festeggiasse o quale fosse il motivo della festa non lo saprei, come non saprei chi ringraziare per quell’invito.
 Arrivammo con il buio della notte. Vestito d’Arlecchino, l’autunno si presentava con freschi aliti che facevano volar le foglie e rabbrividire chi era ancora, come me, in maniche di camicia. Pizzicava il naso con l’odor di terra e, con spirito romantico, rivestiva di malinconia la vallata con bianchi veli di nebbia. Sotto un bel cielo stellato dove brillava anche la luna, i padroni di casa ci accolsero sulla soglia e, dopo un piccolo brindisi, c’invitarono a visitarla.
 Un vero obbrobrio! Arredata con tendaggi, quadri, mobili e suppellettili di cattivo gusto e in tale abbondanza da sembrare un magazzino. Potevano esserci anche pezzi di pregio, ma così ammassati e mal disposti erano orribili. Quella da letto, nonostante ai suoi piedi facesse bella mostra in stile Liberty una vasca per l’idromassaggio, era talmente cupa e così opprimente che avevo la sensazione di soffocare. Migliori erano quelle degli ospiti.
 Spaziosa come la villa e di tutt'altro respiro era la taverna dove si svolgeva la festa. Nel mezzo troneggiava un imponente camino circolare; alla sinistra, oltre a una piccola piscina, si accede in locali atti ai servizi e attrezzati per la sauna. Chiudeva la parete di fondo il mio regno: un piccolo bar.
 Già ci attendevano una ventina di ospiti in gran parte a noi sconosciuti. Rimboccate le maniche, passai tutta la serata dietro al banco del bar ad aiutare il padrone di casa a stappar bottiglie, servir caffè, a creare drink tropicali e cocktail micidiali. Che non si creda! a volte, erano intrugli che la gente, pur di bere, mandava giù senza fiatare. Con la stessa frequenza dei piatti che arrivavano dalla cucina di casa, giungevano a più riprese decine d'invitati alla volta. Gli uomini sbarbati e profumati, pur girando a vuoto, andavano a caccia di conquiste; scatenate nei balli, quasi tutte le femmine davano sfogo alla loro vanità.
 Era appena passata la mezzanotte quando venne da me una donna grassa e piccola che con fare sospettoso e subdolo mi sussurò all’orecchio:
 - Devi far ballare la padrona di casa, ha molta simpatia per te.
 Dopo tre o quattro balli con quel barilotto di vecchia che mi avvinghiava senza poter riconoscere se fossi a contatto con panza o tette, me ne tornai a servire al bar. Anche perché quella pasta di marito non meritava che gli si facesse un torto.
 Verso le due, durante una pausa per un brindisi, ci giunsero le invocazioni d’aiuto d’una donna ch’era rimasta chiusa in un cesso. In parecchi si precipitarono alla porta. La donna chiedeva di tener lontano il marito perché la innervosiva ancor di più.
Accompagnato da Toni Gussa e da Gianni Chitarra, arrivò al banco il marito, anch’egli mio amico da vecchia data, che smaniava e se la prendeva con la moglie per quel suo caratteraccio. Il proprietario di casa consegnò a Gianni  le chiavi di riserva per aprire i bagni, mentre di persona si recò nello sgabuzzino degli attrezzi alla ricerca di quelli adatti per forzare eventualmente la serratura.
 Padrone della situazione, stappai una bottiglia di champagne e versai a profusione da bere agli altri due, cercando di far cantare l’amico sulle virtù della moglie. Una ventina di minuti durarono le sue lagne, finché l’urlo liberatorio coprì la musica, e un caloroso applauso salutò l’ingresso della donna in sala.
 Merito del successo andava a Gianni che, con gran pazienza, era riuscito ad aprire senza danneggiare la porta, anche perché nella stanza dei servizi era stato l’unico ad essere voluto dalla signora. E lui, quando ritornò a consegnarmi le chiavi, mi soffiò:
 - Nel cesso, non era sola.
 E mi lasciò a bocca aperta, portandosi via il bicchiere d’un altro.
 Senza altri intoppi, tra balli, canti, brindisi, e barzellette la serata proseguì fino all’alba. Per via dela discrezione di Gianni, parecchi sguardi erano puntati sulla donna per capirne il favorito.
 Due giorni dopo, come dimostrazione che le ciacole(1) girano, al bar circolava già il nome del fedifrago. La verità, ammesso che la verità avesse solo la voce di Gianni, saltò fuori comunque dopo una settimana, quando quest’ultimo si confessò davanti a me e a Toni.
 Eccovi il suo laconico racconto:
  - Volevo rinfrescarmi la faccia con un po’ d’acqua fresca, ero entrato ai servizi e mi trovavo davanti al grande specchio dei lavabi, quando mi parve che da uno dei box dei cessi uscissero dei lamenti. Sembrava che qualcuno piangesse o stesse male. D’ora in poi, me ne guarderò bene di aprire la porta d’un gabinetto senza prima bussare o chiederne il permesso. La porta era socchiusa e ingenuamente l’aprii. Che spettacolo! La donna sgranò gli occhi e spaventata mormorò:  - O Dio!
  Marco, il marito della professoressa che folleggiava in sala, gridò: - Va via! – e girò la chiave con tale violenza che la ruppe dentro … Ah, già! Ma questo a voi non interessa. Voi volete sapere come si presentarono, e in quale gioco d’amore fossero impegnati? E' piuttosto facile da descrivere: lei era piegata e appoggiava le mani alla parete di destra, mentre lui le faceva il servizio da dietro. La montava come fanno gli animali: in quella posizione detta pecorina.(2) 
 Beh, che c'è? Per brindare, tutti i motivi sono buoni e, quella volta, si brindò alla salute di tutte le donne generose che riescono con furbizia a far felice più d'uno.  

 

(1)    Chiacchiere.
(2)    Il  modo di fornicare della maggior parte degli animali, pecore comprese, da cui il nome.

 

lunedì 21 ottobre 2013

ROSA


  Ah, non ci sono più le donne di servizio d'una volta!
 O la nostra famiglia è stata sfortunata oppure quelle del giorno d'oggi, secondo mia moglie, se non sono controllate a vista, oltre a far poco o nulla, rubano.
 E' inutile ora far un triste elenco degli oggetti e dei soldi che sono mancati. D'altronde, abitavamo in un appartamento grande, con tre figli che andavano a scuola, mentre io e mia moglie eravamo impegnati nei rispettivi negozi, quindi non potevamo seguirle o far da guardia. Tuttavia, lasciatemi raccontare ciò che ha rubato l’ultima donna che abbiamo avuto. Non saprei se c'è da ridere o da piangere. Ditemelo voi!
 Essendo in cinque a tavola, andavo con Teresa a comprare la parte posteriore d’un quarto di manzo da Armido a Brognoligo, una frazione di Monteforte d’Alpone. Il macellaio tagliava la bestia a pezzi e li metteva in appositi sacchetti adatti per il freezer. Mia moglie s’accorse che la carne diminuiva più di quanto se ne consumasse. Nonostante non fosse il momento più adatto, visto che nel freezer era rimasto ben poco, prese nota del numero dei sacchetti rimasti con la Gelmina, nostra fedele stiratrice da più di vent’anni. Ebbene, il giorno dopo che la donna era venuta in casa, s’erano volatilizzati due sacchetti di ossi da brodo. Roba da non credere: un paio di sacchetti di ossi! Qualunque commento è superfluo, anche se qualcuno può pensare: “Poverina, non la pagavano e l’avevano ridotta alla fame”. V'assicuro che non eravamo ancora precipitati nei tempi poco felici del giorno d’oggi. Ma veniamo alla nostra Rosa, l’unica che non rubava, anche se in compenso beveva, e di tutto beveva.  
 Per fortuna, ce l’aveva consigliata il prete della nostra parrocchia. Meglio di così! si doveva per forza andare sul sicuro. L’aveva presentata come una donna di casa, abbandonata dal marito e bisognosa d’aiuto. Scacciata dal marito di sicuro, ma che avesse bisogno d’aiuto c’era da dubitarne, essendo la ex moglie di un facoltoso e ricchissimo viticoltore della nostra Valpolicella che le doveva un milione di lire al mese, anche se questo spesso non veniva onorato.
 Ma perché ora dovrei scrivere ch’era troppo buona o generosa, quando non era affatto vero? Quello che c’è da dire, lo si deve dire. Non dava valore al denaro. E non mi si venga a dire che questa è bontà, visto che l'estrema bontà come la saggezza hanno la stessa faccia della stupidità.
 Sul metro e settanta, sotto i cinquant’anni, magra, d’una magrezza quasi da anoressica, piatta e senza culo, capelli castano scuri e che avevano visto raramente la mano del parrucchiere, sempre in jeans e camicetta o in maglione a seconda delle stagioni … Ho capito: volete sapere com’era di viso? Beh! Quando era libero da ematomi per le percosse che spesso prendeva, oppure non era alterato dalle sbronze perenni che si portava dietro, poteva essere anche passabile. La puzza di vino però non l’abbandonava mai, anche se qualche volta poteva averne bevuto solo qualche goccio.
 Mia moglie, oltre all’usta che lasciava dietro di sé, s’accorse ben presto di tanti piccoli difetti, e per un po’ di tempo pazientò. Un giorno, giunta al limite della sopportazione, si confidò. Mi raccontò che in casa faceva ben poco, che mancava il vino e che la vetrinetta degli alcolici si svuotava. Che fare? Commisi l'errore di prenderla nel mio negozio come donna delle pulizie, pensando che almeno in quelle poche ore non avrebbe potuto bere.
 Quando in bottega entrava qualche cliente, per evitare tristi figure le ordinavo di andare a pulire il cesso, oppure nel sottonegozio che fungeva da magazzino e laboratorio. A volte, era talmente piena che non credo se ne rendesse conto del motivo per cui l'allontanavo. Veniva tre volte alla settimana per un paio d’ore, ma erano più le volte che rimaneva a casa. Ammalata? Macché! …  Scivolava, e con l’occhio sinistro andava sempre a sbattere contro gli spigoli del frigo o contro le ante della cucina, a sentir lei.
 Una mattina, un po’ prima delle dieci, spuntò dal sottonegozio e barcollando s’appoggiò a una vetrinetta. Smorta come un cadavere, con due calamari viola sotto occhi spenti e stralunati, con la lingua impastata borbottò:
 - Sto male!
 - Lo vedo e ti credo: sei ubriaca!... Va’ pure a casa!
 Un paio di settimane dopo mi chiese come mai la tenessi ancora.
 - E se ti mando via io, chi è che ti prende? – le risposi.
 - È per controllarmi, che mi ha tolto da casa sua?
 - Vedi un po’ tu!
  E non seppe trattenere un paio di lacrimoni.
 Quando al mattino spolveravamo il negozio, svuotava il sacco e mi riempiva dei suoi guai. Mi raccontava delle figlie, dei sacrifici, dell’aiuto che aveva dato per far crescere l’azienda di famiglia, e  anche delle botte che aveva preso dall’ex marito e da tutti gli altri uomini che ebbe dopo. Era stata più volte dai Carabinieri a cantar qualcosa, senza però concludere mai nulla; anzi, la consigliavano di ritirare le denunce.
 S’era affezionata e si fidava a tal punto che, una volta, voleva che le custodissi venti milioni di lire che provenivano dalla vendita d’un appartamento ch’era stato di sua madre. Le dissi che non potevo farlo, che per la Finanza non potevo giustificare quella somma anche se le avessi firmato una carta come ricevuta che, a dir il vero, lei poi non pretendeva. Era così ingenua da fidarsi di tutti. Le consigliai di portarli in banca, oppure di farsi fare un assegno circolare o un libretto a lei intestato, e di farne una fotocopia. Seguì il consiglio ringraziandomi qualche giorno dopo con una scatola di cioccolatini.
 Non solo s’era affezionata, credo che non le dispiacessi, visto che dopo una settimana che aveva scacciato il moroso (non posso scrivere compagno o amante perché lei lo chiamava moroso), in un momento d’affetto mi stampò sul collo un bacio che aveva il sapore d’un invito. Fortuna volle che feci finta di niente.
 Non so cosa raccontasse a casa, ma un giorno mi piovve in negozio quel troglodita del suo moroso che, morso dalla gelosia, dopo avermi fatto una scenata, minacciò me e la mia famiglia. Di conseguenza, le spiegai che non potevo  tenerla oltre, e a malincuore la lasciai a casa.
 Di quella donna, magra come un chiodo, non bella, pregna di vino, sensuale nonostante non possedesse nulla di attraente, e che aveva fatto ingelosire tutti gli uomini che aveva amato, ne ho un ricordo triste. Solo una volta ho riso con lei. E val la pena che ve lo racconti.
 Dopo una settimana di assenza per malattia, arrivò in negozio con l’occhio e la guancia che portavano ancora i segni d’un incontro ravvicinato. Come saluto di benvenuta, mi sfuggì di chiederle:
 - Dime, Rosa! Ma cosa ghe feto ai to’ omeni che i te maca semper, invece de gusarte?(1)
Si mise una mano sulla bocca e incominciò a ridere, e a ridere così di gusto che, alla fine, risi anch’io.

 

  (1) Dimmi, Rosa! Ma cosa fai ai tuoi uomini che ti picchiano sempre, invece di fotterti?