sabato 28 settembre 2013

UN CRETINO


 

 Nei balli, mi scateno e ricevo pure applausi, non perché sono un fanatico seguace di Tersicore, ma perché mi diverto un mondo a fare il buffone, nonostante resistenza e scioltezza non siano più quelle d’una volta.
 Le due ultime occasioni le ho avute ai matrimoni dei miei figli. Soprattutto a quello di Nicola e Caterina, dove mi capitò un episodio davvero singolare.
 Il primo ballo lo feci per dovere con la donna più brutta e più vecchia, quella che di solito non la fa mai danzare nessuno. Ballai poi con tante, tra cui Caterina, mia moglie e Giada: una simpaticissima nipotina di mia moglie. Anche se dopo qualche ballo di fila dovevo riprendere fiato, quella volta non mi arresi se non alla fine.
 Durante una pausa m’intrattenni con un amico dei miei figli: un single che, da quello che mi ha lasciato intuire e da ciò che successe poi, aveva e avrà tutte le buone intenzioni di praticare l'onanismo per tutta la vita. Mi stavo informando sul suo lavoro quando m’accorsi che una bella bionda guardava con insistenza verso di noi. Chiesi allora a Carlo:
 - La conosci? - indicandogliela.
 Mi rispose che non gli sembrava.
 Dopo cinque minuti, gli feci notare che sempre la stessa ragazza lampeggiava con insistenza, e se non era il caso di rispondere e richiamarne l'attenzione con qualche breve cenno di cortesia. Carlo mi fece notare che era circondata da altri tre ragazzi. Risposi che non era interessata a loro avendo occhi solo per noi. Allora gli proposi di andare a invitarla per un ballo. Ma lui temeva in un rifiuto. Beh, non aveva tutti i torti! A volte le donne ci solleticano per poi umiliarci con un rifiuto. In ogni caso, è sempre meglio tentare, se non si vogliono aver rimorsi.
 Fui richiesto per un ballo da mia cognata, e allora lo lasciai in balia delle sue incertezze. Dopo qualche ballo, come scesi dalla pista, Carlo mi venne incontro e mi indicò che la ragazza stava ballando. Notai che, grazie ai tacchi alti, aveva una siluette degna di nota, che ondeggiava e sculettava con la sensualità d'una spogliarellista. Doveva essere una di quelle donne che posano sempre, e che son piene di se stesse. Lo si intuiva dalle movenze e da come assestava i capelli che danzando le scendevano sul volto. Era impegnata in uno di quei balli dove ciascuno viaggia per conto proprio. Consigliai a Carlo di intromettersi portando con sé la mia nipotina, rifiutò, temendo che lei si accorgesse del pretesto. Lo fissai negli occhi e capii che anche se avesse bevuto una pozione del mio prodigioso "brodo di volpe" non l'avrei migliorato. Non sapevo come togliergli quell'aria da addormentato. Ma che razza di zuccone m’era capitato? Non ressi, e allora sbottai:
 - Senti un po’: sappi che le donne, oltre al loro ciclo mensile, vanno in calore. In fin dei conti, l’uomo è una bestia: ha fame, ha sete, fa i suoi bisogni e ha le stesse esigenze sessuali degli animali. Anzi, forse di più. Il maschio deve stare al richiamo della femmina, e non è che, quando gli tira, possa trovare da sfogarsi, si fa avanti, può fare delle avances e far intuire le proprie intenzioni, mentre le donne se il giorno prima erano d’accordo, il giorno dopo non lo sono più. Ora vado a bermi qualcosa, tu però,datti da fare!
 Ritornai dopo dieci minuti nei pressi della pista, Carlo mi venne in contro e amareggiato:
 - È andata via con uno.
 - Ahi, ahi! caro ragazzo, allora sei messo proprio male! Con le donne non ci vogliono tentennamenti. Quella era arrivata qui sola, non s’era portata dietro dei mosconi, perciò dovevi osare, visto che ti aveva lampeggiato con insistenza. Ti racconto un'arguzia sentita a teatro e recitata da giovani attori, non so se fosse una loro creazione o di qualcun altro; in ogni caso dovrebbe insegnarti qualcosa sulle donne:
- Sai qual è la differenza tra una briciola di pane che cade a terra e la verginità?
 - No!... Non saprei.
 - Bravo! Infatti non c'è!... In entrambi i casi, il primo uccello che passa se la prende e se la porta via. Considera inoltre che non sei così irresistibile che le donne debbano arrivare a offrirsi ... E adesso dimmi dove sono andati?
 - Sono andati al parcheggio e forse sono saliti in macchina.
 - Allora per te è finita.
 - Signor Monti, mi farebbe un favore? Lei andrebbe a vedere cosa fanno?
 - Cosa?... Ma vuoi che faccia il guardone?
 - Io non posso farlo, perché se la ragazza mi vedesse, sarei finito.
 - Arrivarci qualche minuto prima, no vero?... Ma non hai qualche amico da dargli questo incarico?
 - No!...e poi nessuno conosce quella ragazza. C’è solo lei che mi può aiutare.
Stavo già maledicendo il momento in cui m’ero fermato con quell’allocco dall'aria addormentata, quando lui mi mise in mano le chiavi della sua macchina e invocando aiuto:
 - Il ragazzo, con cui è andata via, è arrivato insieme a me e ha parcheggiato la sua Citroen grigia accanto alla mia BMW blu. Si trovano entrambe in prima fila, sul viale a destra dopo una decina di macchine. Sul sedile posteriore c’è una busta, me la porti. Lo consideri come un pretesto per dare uno sguardo dentro alla Citroen, se le riesce di vedere come vanno le cose.
Dopo qualche attimo d’esitazione:
 - Va be’! Ci vado perché non mi sono mai rifiutato di fare un favore a chi mi chiede aiuto. Se tu avessi lo stesso coraggio con le donne come l'hai con me, nonostante tu non sia una meraviglia d'uomo, saresti uno sciupa femmine coi fiocchi.
 Prima ancora d’arrivare al parcheggio ero già pentito. Allentando il passo e con qualche ripensamento arrivai sul luogo. Individuate le auto, pian pianino, cercando di non far rumore su quello schifoso ghiaiato, m'avvicinai. Avevano i finestrini aperti; il ragazzo teneva gli occhi chiusi in un’espressione goduriosa, lei gli era sopra. Mi bastò quell’attimo, e come un ladro m’impossessai di quella lettera.
 Carlo m’aspettava all’inizio del viale, gli consegnai la lettera e con rabbia gli misi in mano le sue chiavi. Mi corse dietro, e ansimando:
 - E non mi dice niente?
 - Cosa vuoi che ti dica?
 - Mi dica qualcosa?
Non volendo umiliarlo più di tanto, me la cavai con un:
 - Se tu m'avessi ascoltato, le cose avrebbero preso una piega diversa. Svegliati, mio caro! Altrimenti nella vita soffrirai la fame.


       (1) Masturbazioni.

giovedì 26 settembre 2013

LA PELLICCIA


 Nell’Odissea, Omero dice che Giove ha dato le sventure agli uomini affinché abbiano di che cantare. 
 A me basta poco: uno sguardo compiacente, un sorriso, tre parole, un pettegolezzo per poter mettere giù qualcosa. Non sarà un canto, ma neppure una lagna. A che serve scrivere delle disgrazie quando ogni giorno ne arrivano a vagoni?
 Dopo il racconto fattomi dal commesso della pellicceria è come se avessi vinto cinquanta euro al gratta e vinci o se avessi bevuto al bar un paio di calici di champagne. E se poi questa storia mi riesce di metterla in modo decente sulle pagine bianche, volo allora tra le nuvole, e la sua storia diventa la mia: è come se l’avessi vissuta io.
 Di primo pomeriggio e alla fine degli anni Settanta, avevo in negozio Alberto: un quarantenne,  alto, atletico, dai modi gentili e dal soldo facile. Era venuto a ritirare un occhiale da sole a cui avevo sostituito una lente quando entrò Gigi, un mingherlino insignificante in divisa da commesso e che lavorava nella più nota pellicceria della città. I due si salutarono: Gigi con un’aria deferente, l’altro con quel distacco con cui si tiene lontano un seccatore.
 Come Alberto uscì dal negozio, spinto dalla curiosità Gigi mi chiese:
 - Ma lo conosci?
 - Posso dire solo come cliente.
 - Ma lo conosci bene?
 - Come cliente so che è un uomo brillante, che non gli manca il soldo; ma non so cosa faccia di preciso.
 - Allora, te lo racconto io.
 - Scusa: prima di dirmi qualcosa, spiegami perché come ti ha visto s'è irrigidito e ha tenuto un atteggiamento così freddo e distaccato nei tuoi confronti.
 - Credo che stia sulle sue. Forse non vuol rispondere a qualche domanda indiscreta o ricevere complimenti. Non saprei come spiegartelo.
 Costretto a prestare ascolto, pensavo alla pappa che dovevo sorbirmi, quando:
 - Di sabato pomeriggio d’un paio d’anni fa, questo signore entrò in negozio da noi accompagnato da una gran bella donna. Era appena finita la stagione lirica nella nostra Arena. Mi trovavo nel sottonegozio che usiamo come magazzino e laboratorio; stavo preparando le pellicce da spedire ai turisti stranieri quando venni chiamato dai miei titolari ai piani superiori. Nell’atelier dietro al negozio, trovai questa coppia che stava provando un paio di pellicce che sembravano che fossero state disegnate apposta per quella femmina. Mi chiesero se si potevano accorciare. La donna, sui trent’anni, dagli occhi di fuoco e dalla carnagione mediterranea, oltre a essere una bella mora aveva un corpo da modella.
 Mi spiace sempre tagliare le pelli, per di più, entrambi i capi le stavano a pennello. Risposi che avrebbero fatto sempre a tempo ad accorciarle e che, se fossi stato in loro, me le sarei prese così com’erano. L’uomo asseriva che se le avessi accorciate d’una spanna avrei ridotto l’importanza del capo, sarebbero state meno eleganti e più facili da portare tutti i giorni. Appuntando degli spilli accorciai le pellicce; e la donna le indossò un’altra volta. Non erano più le stesse, perdevano in gran parte linea ed eleganza. L’uomo ammise ch’era meglio non ritoccarle. Mi chiese poi quale fosse la mia preferita. Risposi che avrei scelto la più chiara, non solo per il taglio più leggero e moderno, ma perché dava più luce al viso della signora. Furono gentilissimi, mi ringraziarono entrambi. La donna, nello stringermi la mano, come emozione mi trasmise la sua gioia. Ritornato in laboratorio, mi giungevano le trattative e le modalità di pagamento. Appresi dal proprietario che l’uomo aveva tirato sul prezzo, che aveva lasciato due assegni da nove milioni ciascuno su due conti correnti diversi, e che aveva voluto il numero di telefono per dare la conferma, di lunedì mattina, se la banca gli avesse dato il nullaosta. Al pomeriggio sarebbe passato poi a ritirarla. In negozio eravamo al settimo cielo.
 Nelle prime ore di lunedì pomeriggio, l’uomo entrò in negozio: era solo. In bottega gh'era pien de vudo, (1)( come siam soliti dire noi commercianti veronesi). L'uomo si fece consegnare gli assegni con la scusa di poterli controllare, e davanti a tutti, con freddezza li ridusse in tanti coriandoli.
 - Ma come?
- Lasciami finire! I due assegni erano validi. Confessò che gli erano serviti per passare una meravigliosa e indimenticabile notte. Si scusò per il disturbo, consegnando alla moglie del titolare una busta come ringraziamento. Che non doveva essere solo una mancetta, visto che la signora non s'è mai lamentata.
 Come tocco finale, aggiunse:
  - No, no! ... Non aveva segni in faccia. Questo tuo cliente sarà anche un uomo brillante ma, per me, è un gran figlio di brava donna.


       (1)    C'era pieno di vuoto

giovedì 12 settembre 2013

DINO


  Dino è stato il mio primo e unico amico d’infanzia.
 Se escludo alcuni mesi per adempiere ai miei impegni scolastici, sono cresciuto fino all'età di otto anni a Bosco Piazza, una frazione di Torricella Del Pizzo in provincia di Cremona. Una lingua di terra compresa tra il fiume Po e i suoi argini maestri. Terra sabbiosa e al tempo stesso fertile, ricca di prati, di campi di grano, di boschi di pioppi, e dove l'insistente monotono frinire delle cicale e il richiamo del cuculo rendevano ancor più noiose e insopportabili le calde ore estive.
 Allevato dai nonni e dagli zii in tempo di guerra, oltre a sollevare dalle fatiche mia madre impegnata nel lavoro e alla cura di mio fratello più piccolo, la campagna rappresentava il posto più sicuro di questo mondo. Questo era quello che credevano i miei, ignari dei pericoli che passavo frequentando Dino, visto che con lui ero sempre in guerra.
 In quel gruppo di case che formavano il Bosco c’era anche Mario che aveva la nostra età. Nonostante si giocasse anche con lui, i miei pensieri, le mie preoccupazioni, il mio cuore avevano un nome solo: Dino.
 Ero attaccato a lui come la lappola dei fossi. E non c'era una spiegazione perché questo avvenisse. Forse era il suo modo d'insegnarmi i segreti della campagna, oppure quello ruffiano di farsi perdonare solo con gli sguardi, proprio non lo saprei. Scusate se mi ripeto: aveva di bello quel  modo tutto suo di farsi perdonare.
 Ambedue biondi con la candela al naso, stessa altezza, anche se lui più vecchio quasi d'un anno, formavamo una coppia indissolubile. Nella bella stagione, in braghette e corpetto sbracciato, con la fionda che spuntava da dietro il taschino, a piedi nudi e sporchi come selvaggi si batteva la campagna in lungo e in largo. Perfino per fratelli ci scambiavano.
 Dino si accompagnava al suo Checco: una cornacchia ammaestrata a cui avevano tarpate le ali; io al mio bastone che mi serviva sia per andar a pascolare le oche di nonna e di zia Teresa che per difendermi da lui. Eh, sì! Dovevo tenerlo ben lontano perché di tanto in tanto ci si azzuffava, e purtroppo lui aveva sempre la meglio.
 Mentre rimanevo in città, lui non si staccava dalla campagna, e ogni volta che ritornavo mi aggiornava. Non solo, mi costringeva a seguirlo nelle sue imprese, se non obbedivo ai suoi ordini, diventava aggressivo, violento, e me le suonava. Mi considerava un po' come il suo servo, se non addirittura il suo schiavo.
 Si scavalcavano le siepi e si faceva man bassa negli orti dei vicini. Ci si arrampicava sugli alberi per arrivare ai nidi, a volte, erano piante altissime, e per due soldi di cacio come noi, erano talmente alte che, nello scendere, oltre al terrore, ero preso anche dalle vertigini. Quel che si faceva a quei poveri animali che ci capitavano tra le grinfie non è da raccontare. Ricordo che si scorazzava per la campagna in mezzo ai prati, nei boschi, sugli argini, sulle rive degli stagni e del fiume, strappando rosolacci, spiaccicando insetti e sguazzando nei fossi. Sempre fuori di casa e liberi come uccelli. Le prede si dividevano senza bisticciare; fatta eccezione il giorno che catturammo insieme un leprotto. Visto che non lo si poteva portare a giudizio di Re Salomone, senza darmi spiegazioni, se lo tenne. In lui conviveva generosità ed egoismo, e bastava poco perché passasse dall'amore all'odio. A giorni era così cattivo che anche le api lo sfuggivano: era l'unico tra noi ragazzini che s'avvicinava alle arnie.
 Eppure, di lui ricordo i fischi di quando richiamava la sua cornacchia, l'odore del suo sudore, le croste delle sue sbucciature, i calli delle sue mani, l'abilità nell'usare il temperino, d'infilare un lombrico nell'amo e nel riconoscere dalle uova il tipo d'uccello. Quanti rimpianti e quanta nostalgia dei profumi e dei sapori della terra dei miei nonni! E che dire delle nostre imprese? E di quel giorno?
 Di mattina, entrammo nella stalla di mio zio Gino per vedere il vitellino nato da una settimana. Non c’era nessuno, neppure Tacheli, il mezzadro dello zio. Come l’animale ci vide o ci sentì, sebbene fosse impastoiato, s'alzò dalla sua cuccia di paglia, felice di vederci. Aveva il pelo macchiato di marrone, due occhioni colmi di stupore e un musetto, nonostante fosse bagnato di muco, talmente delizioso e piacevole da attirare baci e carezze.
 Un paio di volte mamma mucca si voltò verso di noi richiamando il vitellino con dei muggiti, forse per avvisarlo che sarebbe caduto in mano a due monelli. Dopo averlo coccolato e accarezzato con dolcezza sul muso e sulla groppa, quella bestia del mio amico si slacciò i calzoncini e gli strofinò sul muso il suo pistolino(1). Chiamatela cattiva abitudine o brutto vizio, ma lui quell'arnese l'aveva sempre in mano. Ma non pensate male! Lo fece senza malizia. Non avevamo ancora l’età per immaginare ciò che le nostre ragazze ci avrebbero fatto nell’età adulta. Lo fece così, tanto per scherzare.
 Il vitello gli diede una linguata, Dino rideva divertito e glielo appoggiò sul muso una seconda volta. Il vitello che aveva mancato la preda la prima volta, prima di riprovare ad agguantarglielo, gli diede una testata in avanti come quando succhiava il latte dalla mammella di sua madre. Dino finì a terra. E allora fui io a ridere.
 Come si riebbe, crucciato e in tono di comando:
 - Adesso, lo devi fare anche tu.
 - Cos’è che devo fare?
 - Devi darglielo da leccare.
 - Ma neanche per sogno!
 - Ti manca forse il coraggio?
 - Non son mica scemo! Non vedi che t’ha dato una testata come dà alla tetta di sua madre prima di prenderne il capezzolo?
 - Ma che razza d’amico sei allora?
 - Uno che non vuol perdere il proprio pistolino(1).
 - Sbrigati! Lo devi fare anche tu,- avvicinandosi con fare minaccioso.
Il mio bastone quel giorno era alto quanto me ed era grosso come la metà d’un manico da scopa. Cercò di strapparmelo, lo respinsi e lo minacciai. Quella bestia non aveva paura neanche del diavolo. Fece qualche passo avanti, e allora alzai in alto il bastone. Mentre cercava ancora di assalirmi, gli sferrai una botta dall’alto in basso. Lo colpii alla spalla, avendo piegato in tempo il capo per evitare il colpo. Che fosse sbilanciato o scivolato non lo saprei, sta di fatto che per la seconda volta cadde a terra.
 Nel suo sguardo lampeggiarono sia l'odio che la vendetta. Stava per rialzarsi, quando lo minacciai:
- Se ti alzi, t’accoppo!
 E poi …  e poi me la diedi a gambe ancor più velocemente della volta che lui m’aveva rotto il mio schioppetto(2) e io avevo tramortito con una sassata il suo amato Checco.
Il giorno dopo, con accanto la sua fedele cornacchia, era davanti alle mie finestre come se niente fosse. Se non fosse venuto, sarei andato io da lui.




(1)    Pene di bambino.
(2)    Fucile da bambino.

LA SORELLA DI MISS EUROPA


Mi scuso con gli stranieri per non aver tradotto le parti dialettali e alcuni termini poco comprensibili o addirittura introvabili sui vocabolari, non credevo d’avere un pubblico cosmopolita. Perdonatemi!


  In ogni compagnia, c'è sempre qualcuno che conta balle. Io ho avuto la fortuna di aver Memo, amico di mio fratello e  suo compagno di classe, che ne sparava a raffica.
 Dotato di sfacciata disinvoltura e di notevole capacità nel raccontar frottole, rivestiva le sue affermazioni con tale sicurezza da farle sembrare più vere di quanto non lo fossero. Non che lo facesse per cattiveria o per scopi particolari. Con probabilità, solo per farsi bello.
 Per quanto si faccia, con i bugiardi non si riesce mai a cambiarli, anche se ripetutamente gliele canti. Mi vengono in mente alcuni scritti di Oscar Wilde a proposito dei mentitori," con le loro franche e intrepide asserzioni, con le loro superbe irresponsabilità "e pronti a falsificare perfino le prove più evidenti. E lui era fatto così, era capace di mentire anche sul mentito.
 Avvenne che per qualche anno frequentasse il bar Ariston ai tempi d’oro di Ugo, e m’invitasse assieme a un suo amico a trascorrere le vacanze estive. Come un pesce abboccai. Anche perché davanti agli inviti e alle lusinghe son talmente debole che m'attacco alla prima esca.
 Sopra il metro e settanta, snello, dai capelli neri e dai lineamenti gentili passava per un ragazzo intelligente. Alla fine degli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta, frequentava con ottimi risultati la facoltà di Giurisprudenza presso l’Università di Parma e, oltre a studiare, suonava il pianoforte nell’orchestra dei Solitari: il gruppo di musicisti che avevano accompagnato i primi passi della nostra Mina.
 Mi propose d’andare a trascorrere le vacanze estive a San Benedetto del Tronto, dove l’anno prima aveva suonato al seguito di Mina, e dove c’era, a sentir lui, un sacco di amici che ci aspettavano. Abboccai all'amo. Per rendere il piatto più appetitoso, vantava, tra le ragazze che fremevano per il nostro arrivo, la presenza di un paio di fotomodelle. L’altro sventurato nostro compagno era il chitarrista di quello stesso gruppo.
 Partimmo con la sua Giulietta bianca. Io davanti e il chitarrista dietro, che chiamerò Gianni, visto che non ne ricordo più il nome. Appena saliti in macchina ne sparò una grossa come una casa. Subito fuori di Cremona, sul ponte che attraversa il Po, per superare un camion con rimorchio, durante l’accelerazione mi scappò l’occhio sulla lancetta del contachilometri. Notai che segnava i centoquaranta. Anche se di solito questi strumenti segnano una velocità superiore di quella che si fa realmente, mi spaventai.
 - Va pian! (1)Stai facendo i centoquaranta. Non vorrei morire appena passata la soglia di casa, - implorai.
 - Ma non stiamo mica andando ai centoquaranta, stiamo facendo i centosessanta. Ho fatto ritoccare il contachilometri  in modo da ridurre la velocità per non spaventare i miei passeggeri.
 Questa non l’avevo mai sentita. Mi voltai all’indietro per cercar conforto, e Gianni buttò gli occhi al cielo e allargò le braccia come per dirmi “ Porta pazienza”.
 Salto tutte le balle sentite durante il viaggio e racconto ciò che trovai a San Benedetto.
 Le fotomodelle erano due comuni ragazze di Milano, il cui aspetto era ben lontano dalle immagini che noi abbiamo di chi al giorno d'oggi esercita questa professione. Roberta bionda, con coda di cavallo, sul metro e sessanta, piacevole senza essere una bellezza, faceva la parrucchiera e, di tanto in tanto, avendo un corpicino ben fatto posava per la pubblicità di mutande e reggipetto. Una volta la pubblicità era molto parsimoniosa: tagliavano testa e gambe, e stampavano in piccoli spazi il necessario per mettere in mostra il prodotto da vendere. Irene, molto più alta, magra e dal viso cavallino, portava i capelli mechati di bianco e di grigio cenere come dettava la moda in quel periodo e, oltre a frequentare l’università, le venivano fotografate le mani per pubblicizzare la crema d’una famosa ditta. Mani scarne e affusolate di indicibile bellezza.
 Quel tremendo bugiardo e mistificatore aveva promesso che ci avrebbe accolto un folto gruppo di amici e di belle ragazze. In realtà, oltre alle due menzionate prima, di tutta quella millantata compagnia trovammo solo un paio di giovani avvocati di Napoli con le loro ragazze.
 Al mattino sul tardi, s’andava qualche volta in spiaggia per vedere il mare, si passava il pomeriggio al matinèe e la sera a ballare sempre nello stesso posto. Obbligati dal fatto che il proprietario ci faceva dei prezzacci (3) grazie all’incremento ricevuto dal locale ospitando Mina.  
 Ora, questo episodio che sto per narrare, me l'ero proprio scordato. Me lo rammentò Memo un giorno che al bar eravamo in compagnia di alcune ragazze.
 Era successo che una notte, mentre danzavo con Roberta, le si sfilasse l'abito da sera che, per fortuna, s’arrestò alla cintola lasciandole scoperta i seni. In quelle condizioni, si fece un paio di balli richiamando l’attenzione dei ballerini in pedana. Presi dal ballo o fatti dall’alcol, ce ne rendemmo conto solo dopo che un cameriere con garbo venne a battermi sulla spalla. La strinsi ancor di più, in modo che l’abito non scivolasse a terra, finché pian pianino lo riallacciai.
 Il dir bugie è un’arte, una grande arte anche se non riconosciuta. Oltre a raccontarle, in modo che diano l’impressione d’essere vere e credibili, si devono poi sostenere a viso aperto con tutta la fantasia che intelligenza e logica permettono. Mentre la verità è una e una sola, la falsità ha parecchie versioni. Roba da paragonarsi alle musiche atonali e alle pitture astratte, se vogliamo considerarla un'arte.
  Ascoltate ora come quel bellimbusto, senza conoscerne le intenzioni, a voce alta e in qual modo mi presentò:
 - Lo sapevate che Monti ha denudato in una sala da ballo la sorella di Miss Europa?
 Mi caddero le braccia.
 Gli amici del bar che giocavano a carte rimasero invece con il braccio alzato e l’asse in mano. Tutti quelli che l’avevano sentito mi guardarono con il disprezzo riservato a chi recita la parte di chi affetta modestia, visto che non avevo mai confessato né vantato un fatto del genere.
 Chiesi con stupore come mai Roberta non mi avesse mai parlato d’una sorella. Sapevo che era carina, forse anche bella, ma che avesse in casa una miss m'era ignoto. Questo spudorato bastardo, per farmi passar per mostro, mi rispose:
 - Non lo dice a nessuno perché con una sorella così bella ne teme la concorrenza.
  Potenza della menzogna: battuto 1 a 0, nonostante giocassi in casa.


        (1)  Frottole.
        (2)  Va piano.
        (3)  Prezzi stracciati.
       
      

sabato 7 settembre 2013

BASTA CHE TE TASA


  Mia madre ha vissuto da sola nel suo appartamento a Cremona in Via Volturno 62 fino alla bella età di novantadue anni, finché un giorno, a causa di un’ernia iatale, ebbe un crollo.
 Un malanno che la faceva terribilmente soffrire e che trascurava. Non seguiva né la dieta che le era stata ordinata, né prendeva con regolarità le medicine che le avevano prescritto. Non tollerando oltre i dolori, per disperazione un dì arrivò a scottarsi con un ferro da stiro la pancia nel tentativo di digerire meglio. Negli ultimi tempi s’era ridotta a vivere, a nostra insaputa, solo di yogurt per poter mandar giù qualcosa; ma la cattiva e scarsa alimentazione la portarono a precipitare in un terribile stato febbrile che la costrinse a essere ricoverata d’urgenza all’ospedale.
 Lei, che era nata già chiacchierona, a causa della febbre alta era stata colta dall’eterolalia: una loquacità delirante che la rendeva ancor più gioviale del solito. Tuttavia, il suo stato preoccupava, anche perché in quel suo chiacchierare c’era un qualcosa che non quadrava.
 Al giorno d'oggi, negli ospedali non ci ospitano più tanto a lungo; se potessero ci caccerebbero via con ancora le budella in mano o con il sangue che ci cola addosso. Infatti, come si riprese di quel poco, non potendo tenerla oltre ci consigliarono di ricoverarla in un ospizio. Già! Ma non si chiamano più così oggigiorno, c’è chi vuole che siano chiamati luoghi di accoglienza.
 Da quando è uscito Il Gattopardo, è diventata ormai una mania quella di cambiar i nomi per non cambiar nulla. Al cieco, al sordo, allo zoppo, al deficiente e ad altri sfigati, aggiungono il suffisso leso al termine video, audio, cerebro e così via. Non solo, ma fanno di più, anche a certi lavori e ad alcuni impieghi hanno cambiato i vecchi nomi. Eh, sì! lo spazzino o il becchino non sono più spazzino o becchino anche se fanno sempre lo stesso mestiere. Non parliamo poi di quelli che hanno sostituito qualche nostro vizietto con nomi in Inglese: come gay, escort, pusher e tanti altri.
 Che i vecchi termini fossero cacofonici, volgari, offensivi? Non mi sembra. Se alla rosa diamo un altro nome, forse non rimane sempre il più bel fiore? Muta forse qualcosa? Perfino ai partiti hanno sostituito i vecchi nomi, senza cambiar nulla. A questo punto, mi prende la voglia matta di gridare “merda”! prima che me la tolgano dalla circolazione e dal vocabolario.
 Ma ritorniamo a mia madre. Le era stato diagnosticato l’Alzheimer, considerata per questo pericolosa per sé e per gli altri. Mio fratello, attraverso le sue conoscenze, le trovò posto nella casa di cura a San Bassano, un paese vicino a Cremona. Per mancanza di posti, fu messa, in un primo momento, in un settore dove le ricoverate erano veramente fuori di testa.
 Di domenica o di lunedì andavo a trovarla, e in quel reparto ogni volta incrociavo una coppia di donne che continuavano a camminare avanti e indietro per ore e ore lungo i corridoi come disperate. Una di queste, non male in arnese e forse anche più giovane di me, sia nel camminare che nel modo di fare cercava sempre di farsi notare. Un giorno, questa donna s’avvicinò a mia moglie e in tono confidenziale:
 - En qual de, me a quel le ghe ne do tante che ghe passa la voia.(1)
 E Teresa di rimando: - S’accomodi pure, cara signora. Non sa che piacere mi fa.
 Questo episodio mi viene spesso ricordato da mia moglie per rinfacciarmi la mia faccia da schiaffi; ma lei non sa ancora adesso che, quando l’incrociavo, punzecchiavo quella donna facendole l’occhiolino.
 Per il sollievo di noi familiari, mia madre cambiò reparto, finì in un posto più ampio e più tranquillo. Nonostante questo passo in avanti, si rifiutò sempre di legare con le altre ospiti; così dovevamo chiamarle: era un’offesa grave dire che erano delle ricoverate.
 Disdegnava e disertava le sedute di gruppo e, oltre a guardare rare volte la televisione, implorava con insistenza alle inservienti un’occupazione. Abituata a lavorare tutta la vita, chiedeva d'essere d’aiuto. E quelle brave donne le permisero di asciugare le posate in cucina, di sistemare le garze, di mettere in ordine fazzoletti, tovaglioli: tutte piccole occupazioni, proibite per le ospiti, ma che  tolleravano per dar sollievo alla sua infermità e rendere più sopportabile il ricovero. Poco importava se questo fosse contrario alle regole del sindacato e a quelle della casa di cura. 
 Con il tempo, la sua memoria divenne sempre più debole: si scordava ormai della sua casa e di mio padre. Il trovarla ogni volta sempre più serena era per me un gran sollievo, annullava in parte la tristezza e il dolore di vederla chiusa là dentro. Ora, scrivendo questi ricordi, mi prende l’angoscia se penso che anch’io finirò i miei giorni in una struttura uguale, dal momento che i medici s’impegnano a farmi morir sano.
 Lasciamo perdere i cattivi pensieri e ritorniamo a mia madre.
 Ogni domenica la portavo al ristorante dove, stare in compagnia, qualche nuovo piatto e qualche bicchierino la rendevano più allegra. Per manifestare la sua gioia, partecipava attivamente ai discorsi, soprattutto sui tempi di cottura, sugli ingredienti, sulle salse, su tutto quello che le nostre brave donne preparano in cucina. Nessuno l’avrebbe mai detto che aveva perso totalmente la memoria sui fatti più recenti, anzi, nei discorsi faceva ancora brillare il suo spirito sempre pungente.
 Un lunedì mattina la trovai circondata dall’aria festosa d’un nutrito gruppo di donne: tutte inservienti e infermiere addette al suo settore. Una di loro, piccola, sui trent’anni, non proprio bella, servizievole, ma a volte così ciarliera e petulante da risultar fastidiosa, quando all'improvviso, cambiando discorso, s'inventò di chiedere:
 - Signora Margherita, troverò anch’io un uomo che mi sposi?
 Senza pensarci due volte e senza tanti riguardi, facendosi seria:
 - Basta che te tasa!(2)



  (1) Un qual giorno a quello lì  gliene do tante che gli passa la volgia.
  (2) Basta che tu taccia.



lunedì 2 settembre 2013

CRISTINA


  Mi fu presentata dalla sorella più giovane d’un mio amico. Devo ammettere che non fui io a conquistarla, ma lei a catturarmi. Non solo! Dopo sei mesi fu sempre lei a mandarmi a spasso. E cosa ci potevo fare? Non sempre gli anelli s'infilano nel dito giusto.
 Sul metro e sessanta, magrolina all'apparenza ma ben tornita, rossa e con capelli a coda, possedeva un bel sorriso, un buon carattere e qualche brufolo di troppo. Quel che la rendeva unica e singolare era il fatto che voleva far l’amore nuda e sempre nei prati. E non c’era verso di farlo diversamente.
 Se il letto è il luogo preferito dai più, negli anni ho sentito che alcuni lo fanno volentieri sui tappeti, contro il tavolo della cucina, nelle vasche da bagno, negli ascensori, insomma, dove capita. Ma che si preferissero i prati a volte umidi di guazza, su zolle di terra nuda e cruda, oppure su spuntoni d’erba spesso anche secca e con una miriade d’insetti che ti corrono su e giù per il corpo, non l’avrei mai creduto se non l’avessi provato. Non ha tutti torti il grande Oscar quando dice che la natura è scomoda. 
 Frequentai Cristina un po’ prima d’innamorarmi di Ester. Agli appuntamenti  andavo in motorino. Dovevo per forza usarlo se non volevo pedalare per chilometri e chilometri su argini, stradine di campagna, cavedagne(1), e seguire lei che mi precedeva in bici. Ed era sempre lei che sceglieva i posti dove sostare. Il più delle volte andava qualche ora prima in perlustrazione anche se, come spesso succedeva, quando c’era da gettarsi a terra, cambiava idea, e allora si doveva cercare altrove.
 Sarà stato anche un periodo di goduria, ma non ero affatto sereno, vessato ogni giorno da mia madre per certe macchie verdi sugli abiti, e da Cristina che voleva a tutti i costi farmi scavalcare un muro di cinta per entrare in una villa abbandonata dove c’era un prato che, a suo dire, aveva un’erba favolosa, se non addirittura miracolosa. Eh, sì! Il nostro problema era proprio un tappeto verde.
 Di solito, ci mettevamo vicino ai cigli dei sentieri o sulle sponde degli argini vicini al Po, dove l’erba era più soffice e più fresca. Se poi fra il verde c’era anche qualche fiorellino diventava ancor più matta. Si arrotolava su quei tappeti non per l’amore alla terra come provava Rossella O’Hara, ma  come una puledra.
 La gente di campagna sa che i cavalli che vivono allo stato brado arrotolandosi sull’erba non han bisogno di essere strigliati. Lei era convinta che la sua pelle, come quella dei cavalli, diventasse più bella. Forse non aveva tutti i torti, ma non era questo il solo motivo: sui prati provava l’orgasmo primitivo degli animali, ed è forse per questo che mi vien il sospetto che le femmine siano più bestie di noi maschietti. Per queste manie a volte la chiamavo simpaticamente la mia "Cavallina".
 Nudi come vermi, si faceva l'amore sempre con un po' di paura. Non si temevano gli sguardi maliziosi delle ninfe, quelli compiacenti dei satiri, i sorrisi beffardi dei folletti o l'occhio severo del re degli Elfi, ma la presenza di qualche guardone o del contadino troppo curioso, come era capitato una volta.
 Quel giorno, avevamo scelto una cavedagna  che da un lato era fiancheggiata da un filare di salici che seguivano un fosso, e dall'altro da un campo di stoppie. In quello stesso posto c’eravamo stati anche il giorno prima. Eravamo ai primi di settembre, sul far del mezzogiorno; in cielo qualche nube e un leggero tepore accarezzava l’aria. S’era appena buttata sull’erba quando gettò un urlo tremendo. Ben diverso di quando si trovò un ramarro sul ventre. L’aveva punta una vespa. Manco a farlo apposta, proprio su una chiappa.
 Come si voltò, trovai un bollino rosso con un puntino nero nel mezzo che tolsi premendo con le unghie dei pollici. Mentre con piacere succhiavo la parte dove era stata punta, avvertii una presenza estranea. Alzando gli occhi mi trovai sotto lo sguardo d'un contadino che tra i baffi  mi sorrideva. Mamma mia, che spavento! Se non me la son fatta addosso quella volta non mi capiterà mai più.
 Accidenti, ma quell'uomo io lo conoscevo! Per la miseria, che culo! E poi dicono che il mondo è grande.
 Fu lui a rivolgermi per primo la parola:
- Professore, ma cosa sta facendo?-  e m’interrogava con i suoi occhi cerulei senza nascondere la sua sorpresa.
Cristina strillò e, arrotolandosi un paio di volte, arrivò ai vestiti e:
 - O mio Dio! – coprendosi con un golfino.
 Era il signor Giovanni, un agricoltore sui cinquant’anni parente dei miei amici Garavelli, anch’essi agricoltori, ed era anche lo zio d’un mio ex allievo. Caspita, se lo conoscevo bene! Ma cosa faceva da quelle parti?
- L’ha punta una vespa,- risposi. Come se fossi obbligato a giustificarmi, invece di mandarlo a quel paese.
 Un silenzio pesante, rotto dal ronzio degli insetti e dal canto d’un cuculo proveniente dai boschi di pioppi, incombeva su quella scena dove qualche nuvoletta bianca stava a guardare. Peggio di così non poteva andare, a meno che al posto del signor Giovanni ci fosse stato il padre di Cristina.
 Impacciato nel muovermi, non sapevo come togliermi da quella situazione imbarazzante e dalla curiosità di Giovanni che indugiava sul mio uccello(2) pronto per la partenza. Lui sorrideva, lasciando intendere la soddisfazione per avermi pescato in quel frangente. Di tanto in tanto gettava sguardi su Cristina per capirne la bellezza. Fremevo e masticavo rabbia. 
 Dopo qualche minuto di troppo, con un fischio richiamò il suo cane da caccia e , come se non gli fosse bastato di avermi rotto le uova, fischiettando se ne andò.
 Che peccato: non avergli forato la parte alta dei calzoni con pallini del 12!

  (1) Sentiero tra un campo e l'altro.
  (2) Pene.