mercoledì 31 luglio 2013

HAPPY HOURS


  A Cremona, nel Sessantatre, mio fratello aveva preso la buona abitudine d’andare con i suoi amici, un po’ prima delle venti, a bersi l’aperitivo sotto la Galleria XXV Aprile presso il caffè Moka.
 Nonostante il posto fosse solo un budello con un bancone sulla sinistra, con una lunga specchiera alla parete e con mensole che reggevano bottiglie, era diventato un locale alla moda. Sembrava che non ci fosse niente di meglio in tutta la città.
 In fondo a questo banco, a foggia di elle maiuscola, sul lato minore era disposta la macchina del caffè che non mostrava al pubblico, come avviene al giorno d’oggi,  beccucci e manovelle, ma il lato opposto, dove faceva bella mostra il designer del costruttore.
 A quei tempi, il vino non era un gran che. Per noi Cremonesi non c’era altro che Malvasia piacentina, un bianco leggermente frizzante e un po' amabile. Qualcosa di meglio era il Carpenè Malvolti e il Montelera della Martini, più pregiati di questi veniva solo lo champagne. Non servivano il bianco fermo oppure il vino rosso come s'usava nelle osterie, e non era ancora di moda lo spritz all’Aperol, anche se devo confessare che qualcuno prendeva già dello sprizzato semplice oppure corretto con Campari o Cynar. Quel locale poi era famoso per il bitter Campari con selz servito in bicchieri ghiacciati. Scusate se trascuro gli analcolici, ma con loro non ho mai avuto buoni rapporti.
 Mio fratello inforcava la bici e, pedalando lungo Corso Garibaldi e Corso Campi, andava a trastullarsi in quel locale. Lì, s’incontrava con i suoi amici: Pancino, Bigio Piacenza, Beppe Pigoli e un altro paio di allegri festaioli di cui ho perso il ricordo. Evitavo il locale perché lo trovavo pericoloso: infatti, un giorno che risposi con un cenno del capo a uno dei frequentatori che anch’io ci stavo, mi vidi recapitare da mio fratello, ora non ricordo bene, se un quaranta o un cinquantamila lire. Avevo partecipato, senza volerlo, a una scommessa calcistica fatta da un celebre avvocato cittadino che aveva una gran fede ma poca testa. La Cremonese aveva perso quattro o cinque goal a zero e io avevo preso il premio. Se avesse vinto la nostra squadra, sarei finito in rovina solo per aver detto che ci stavo, pensando a un annuncio funebre o al contributo per qualche piccolo omaggio di riconoscenza, e non per diecimila lire a goal.
 Che non crediate che le ”happy hours” siano nate solo adesso? Ci sono sempre state. Una volta festeggiavano solo i più ricchi: cominciarono gli antichi Romani, poi si passò ai nobili e ai re nei loro castelli medioevali, e dalle locande del Rinascimento si arrivò ai caffè dei primi Novecento. Al giorno d'oggi, senza essere artisti squattrinati, festeggiano anche quelli che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese. E hanno ragione! Per quel che offre la vita, val la pena divertirsi. Le ore felici devono appartenere a tutti quanti. Proporrò di votare un referendum perché diventino "Patrimonio dell’Umanità".  
 A parte gli scherzi, una volta non si vedeva gente bere in strada perché nei locali non c’è posto a sufficienza, e non si vedevano neppure donne andare e venire dai locali. Le ragazze non entravano da sole nei bar. Se poi erano carine, non avrebbero avuto scampo: sarebbero state assalite dai complimenti e costrette a contrarre nuove amicizie. Una sola andava e veniva impunemente in quel bar: era soprannominata Mani Di Fata.
Sì, sì! avete capito benissimo. Era bravissima nel far le seghe(1), anzi, non c'era di meglio.
 Voi adesso non mi credete se racconto che non le faceva a un solo ragazzo e in angoli appartati o in macchina, ma nel bar stesso. Le faceva poi a tutti, anche a due alla volta, e con più il locale era affollato, meglio venivano, le seghe s’intende.
 Magrolina, capelli ricci, gambe diritte, seno piccolo e sodo, sul metro e sessanta; non era una bellezza, ma non era neanche da buttar via. I ragazzi si mettevano in fondo dove c’era la macchina del caffè, la circondavano e, mentre uno si sacrificava a far da palo, lei infilava le sue manine nei calzoni e dava inizio a massaggi erotici che facevano strabuzzare e inumidire gli occhi. I ragazzi erano sempre pronti con fazzoletti di cotone e, nei momenti d’estasi, l’attiravano a sé, dandole a volte qualche bacio in fronte o prendendola per i riccioli.
 Ecco, ora capite perché all’inizio del racconto ho usato il termine "trastullarsi".
 Gli avventori non s’accorgevano di nulla. Solo il cameriere più anziano intuiva qualcosa, forse pensava che la palpassero un poco, mai si sarebbe immaginato quel che facevano.
 Dalle espressioni dei volti degli amici di mio fratello si poteva intuire la presenza o l’assenza della ragazza, se poi mancava da qualche giorno, ne leggevi la disperazione. Purtroppo, i bei giorni prima o poi hanno una fine. Arrivò il giorno in cui Mani Di Fata annunciò d’essere incinta. Non aveva saputo reggere alla voglia di allargare le gambe, e c’era rimasta.
 Dopo un mese di lutto, i giovani trovarono una sostituta, ma non resse. A forza di cercare ne trovarono un’altra, ma mamma mia! che fatica per addestrarla e per farle passare la paura. E poi, non c’era confronto con la delicatezza e il tocco di Mani Di Fata. Sembrava che queste nuove novizie prendessero in mano un bastone e non un oggetto sacro. Lo facevano sforzandosi e non con la maestria e l’entusiasmo di Mani Di Fata. C'è poco da scherzare: anche questa è un’arte, o la si ha nel sangue o non la si ha. Si può imparare tutto ciò che si vuole nella vita, e avere anche i migliori maestri del mondo, ma per arrivare a certi livelli, oltre all'impegno ci vuole una gran passione, e, a volte, non basta neppure quella.
 Per anni rimpiansero quelle ore felici.

 
    (1) Masturbazioni maschili.

 

 

 

 

 

martedì 16 luglio 2013

ARRIVO, ARRIVO!


  Dopo Corticella San Paolo, sempre a Verona, andai ad abitare in Vicolo Cieco Pozza al numero civico 9. E vi rimasi per venticinque anni.
 A destra del piccolo cortile e sotto a una monofora con colonnine e arco a tutto sesto, si entra in casa. Attraverso un portone in ferro, che dalla metà altezza in su presenta piccoli rettangoli in vetro smerigliato, prende luce questo androne di  tre metri e mezzo per sette. Un posto ideale per le bici dei miei figli e dei loro amici (un giorno ne contai ben otto). Oltre alle bici e alla legna da ardere, veniva sfruttato anche come deposito per gli amplificatori musicali. Sulla destra, si sale per due rampe di scale e, dopo una porta che poteva andar giù con una sola spallata, si entra nell’appartamento vero e proprio.
 Una casa grande caratterizzata da una vasta cucina con caminetto e da un salone con alti soffitti e travi a vista di oltre settanta metri quadrati. Lasciai quella abitazione tre anni fa perché le spese per il riscaldamento, senza per altro che ci fosse mai tanto caldo, erano una disperazione. Inoltre, per due persone sole era diventata troppo grande.
 Una casa di fine Quattrocento fatta di mattoni e di sassi, che appartiene ai Conti Liorsi e che era ammirata da tutti quelli che mi venivano a trovare. Nonostante gli ospiti e gli amici ne rimanessero entusiasti, mia moglie non lo era affatto, per via delle scomodità e per la immensa fatica per tenerla in ordine. E non solo! Se un giorno c’era qualcosa che si rompeva da una parte, il giorno dopo qualcosa di più grosso si guastava da un’altra. Si sa come sono le case vecchie. E siccome avevo firmato un contratto d’affitto vantaggioso, per i rattoppi dovevo pensarci io. Quel canchero d’avvocato che mi fece firmare il contratto sapeva il fatto suo.
  Fatta eccezione per un paio di finestre che s'affacciano sul cortile e di una sola sulle aule scolastiche del Duca D'Aosta, le altre sette vanno a sbattere  contro i muri poco distanti delle case attorno. Di verde e di cielo si vedeva ben poco. In compenso, una casa utilissima per i miei tre figli, dove avevano spazio per correre, giocare e far musica con i loro i amici. Dimenticavo: aumentano il fascino di quella abitazione alcuni affreschi sulla scala d’ingresso e nel salone; mentre all’esterno una vite americana, oltre a coprire un alto muro di cinta e l’ingresso, gli dà un felice tocco all’inglese. In autunno poi, le foglie assumono tutte le tonalità dei rossi e della ruggine lasciando a bocca aperta l’occasionale osservatore.
 Di quella casa ne ricordo ancora l'odore. Eh, sì! Perché le case come le donne hanno il loro adorabile profumo. Se si esclude il chiasso che fanno i ragazzi nel cortile della scuola nella bella stagione e, a finestre aperte, l’urlo delle sirene che sfrecciano in Via Carducci, in casa non giungevano altri rumori. Fecero eccezione le urla che mi svegliarono in quella memorabile notte.
 Eravamo d’estate e a metà degli anni Ottanta, la giornata era stata caldissima e di notte non si respirava. Non c’era ancora il caldo infernale di questi ultimi anni; e non avevo ancora sentito la necessità d'un impianto d'aria condizionata. Nella speranza di ricevere qualche bava d'aria, avevo lasciato le finestre aperte. Verso le due fui svegliato da lamenti. Tesi l’orecchio. Non erano i versi di gatti in amore, ma le implorazioni d'una donna provenienti dalla casa di fronte. Mi alzai, mi asciugai il collo dal sudore, e pian pianino andai in salone. Aprii ancor di più le finestre per sentir meglio. Mentre sopra i tetti una luna piena mi guardava divertita, mi avvicinai al telefono pronto a chiamare il 118. Ma che sorpresa! Nonostante mi si chiudessero gli occhi, le parole che mi arrivavano non erano di dolore, ma avevano un tono talmente godurioso ed eccitante che mi soffermai ad ascoltarle. Se a qualcuno capiterà di recitarle, mi raccomando: che il tono sia un misto tra sofferenza e piacere.
Eccole.
 -Aiuto! O Dio, aiuto!... Sìì… ancora!... Arrivo! O Dio! Arrivo!...Ahaa..Ahaa … Sìì… aiuto!... Arrivo!... Sìì! Ancora, ancora! Arrivo!
 E poco dopo: - O Dio! ...Sii ...Arrivo! ... Arrivo! ... Dai, dai! ...Arrivo!
 E poi di nuovo silenzio. Da parte del cavaliere neppure un gemito, forse impegnato a spronare profondo e con vigore.
 Dopo qualche attimo la donna riprese fiato e di nuovo agonizzava d'amore:
 -Ahaa… Ahaa… Dai, dai! Arrivo!... Sìì… Arrivo!
Tutto in perfetto Italiano.
 Alla terza volta, già il mio affare (1) dava segni di irrequietezza. Ora però, non saprei dirvi cosa mi prese, se la voglia di ridere o l’eccitazione, sta di fatto che gridai:
 - Signora… signora! Tenga duro! che arrivo anch’io! 
     
     (1) Pene

 

P.S. Per un buon mese, mia moglie mi tenne il muso, e per qualche settimana in più, quando uscivo dal vicolo e imboccavo Via Carducci, mi guardavo attorno temendo d’incrociare quella femmina.

 

 

 

domenica 14 luglio 2013

TANTO PELO


  Il 4 gennaio del Settantadue, a Verona e in Corso Sant'Anastasia, aprii il mio negozio d’ottica. E dopo qualche giorno andai ad abitare in Corticella San Paolo.
 Per recarmi al lavoro, dovevo attraversare il Ponte Navi, procedere lungo Via Leoni e Via Cappello, e alla fine di Piazza delle Erbe, davanti al Palazzo Maffei, svoltare a destra dove, al numero civico 4, aprivo i cancelli del negozio. Per ben quattro volte al giorno facevo circa questi seicento metri a piedi passando davanti ai bar di Via Leoni. Una vera e propria tentazione. Ed essendo dotato di una volontà di ferro, a febbraio ero già dentro in uno di quei locali a festeggiare.
 In quel periodo, i posti più famosi e più frequentati dai bevitori del centro erano la Bottega del Vino, Pommarini, e i baretti di Via Leoni, dove, sulla lastra che reca inciso il nome della via, una  felice mano aveva mutato la elle con la bi maiuscola. In modo da leggersi Via Beoni.
 Ogni giorno, prima dei pasti, si potevano vedere un via vai di persone allegre e chiassose che andavano e venivano dai quattro bar. C’è chi li passava tutti e quattro, chi solo due, ma i più ripassavano anche da quelli già fatti. Il verso di percorrenza, secondo un’abitudine consolidata, era quello che da Porta Leona andava al ponte.
 Sul lato sinistro, per primo veniva il bar Zanatta, gestito da Franco. Dopo venti passi il bar dell’Annamaria Sinico, il più piccolo, il più coccolo, e dove la qualità dei bocconcini e dei vini era superiore agli altri tre. Usciti da Sinico, e passato il vicolo e la pizzeria al taglio, si entrava da Armido. Fatti altri quaranta metri verso il ponte, scendendo per tre scalini, ci si trovava nell’osteria dei Brunelli, dove il vino, spacciato per genuino, sarà stato il meno caro, ma era anche di scarsa qualità.
 Oltre ai turisti e a clienti occasionali, i quattro locali erano frequentati dai commercianti vicini e da un centinaio di avventori affezionati che arrivavano dalla periferia, perfino dai paesi vicini. Rari gli avventori solitari. Se ce ne fosse stato qualcuno, dopo tre o quattro presenze, sarebbe stato catturato da qualche compagnia. Ricordo che, per via dei costo, era meglio offrire una bottiglia piuttosto che singoli bicchieri. Lo sapeva bene il nostro Checco che ogni volta ne offriva una.  Ma chi, stropicciandosi le mani, offriva sempre il bicchiere della staffa era il dottor Novello a cui facevano pagare lo stesso conto più volte. E a chi glielo faceva notare, lui rispondeva con una spallucciata.  
 Di lunedì, Tortellini teneva banco e lasciava il segno. Aveva un laboratorio di pasta fresca, e il lunedì era il suo giorno di riposo che festeggiava andando a puttane (2) o ubriacandosi con champagne. A volte, facendo entrambe le cose. Se poi si accompagnava a un suo amico macellaio di provincia, allora i due diventavano veramente pericolosi: prima o poi toccava a noi offrire la bottiglia, e quei due bevevano esclusivamente champagne, e non erano mai pieni.
 Dovete sapere che a volte i momenti migliori erano quelli di gran baldoria. Oltre a vuotar bicchieri, ci si riempiva di grasse risate, dovute ai  frizzi e alle facezie che arrivavano con l’abbondanza d’un fiume in piena. Non è detto che un tramonto, un ballo, una cena, una musica e tante altre situazioni romantiche siano i soli momenti magici; a volte, in questi ambienti nascevano attimi d'effusione che inebriavano. Sembrava che il mondo godesse di pace eterna e di sacra amicizia, come se tutti avessero le stesse idee, uguali desideri e identici gusti da condividere. Come in un bel sogno, si lasciavano pensieri e affanni alle spalle e, pervasi da un senso d’oblio e di benessere, ci si bagnava l’ugola con del buon vino. Un vero peccato che euforia ed ebrezza durassero solo mezz’ora.
  Uno dei gruppi più originali e chiassosi di quel periodo faceva capo un certo Nino. Quest'uomo, sulla la sessantina, di corporatura robusta, sfacciato nella sua eleganza (a volte si presentava con stivali, in pantaloni alla zuava e con camicie e giacche da caccia), era quello che si dice un bell’uomo. In molti gli trovavano una certa somiglianza con l'attore Curd Jurgens. 
 Arrivava dalla zona stadio con il suo cane da caccia. Guidava il gruppo, seguito dal cane veniva poi Amleto, il suo grande amico d’avventure. Un tipo segalino e con la cicca sempre in bocca. Subito dopo Elsa, l’amica di Nino, sempre in jeans attillati che le evidenziavano il suo bel culetto. Per ultimo veniva il Gatto, un bell’uomo, se non fosse stato per l’odore. Puzzava perché odiava sia l'acqua che il sapone, e giustamente, lo tenevano sempre sottovento. Un sacramento che sapeva far di tutto: poteva comodamente riparare un orologio o un ascensore senza alcuna difficoltà, con il gran pregio che non aveva mai voglia di lavorare e che non si faceva riguardo a scroccar bicchieri. Questo bel gruppetto partiva in processione dal bar Zanatta e saliva verso il ponte facendosi tutti e quattro i locali; a volte, tornava pure indietro. Cane compreso, i quattro avevano delle gran storie alle spalle; mi limiterò a raccontarne un paio in modo che possiate farvene un’idea.
 Il Gatto, che aveva dato un giorno un passaggio a Elsa in auto, se la fece, e andò poi a confessarlo a Nino. Elsa si giustificò dicendo che aveva dei pruriti invece che delle voglie. Nino, fingendo d'essere sconsolato, in risposta al Gatto:
 - Cosa ci posso fare se ho una morosa che è come il bus e me la montano (2) tutti?
Nino e Amleto in Marocco erano andati a caccia. Di notte, in un night, dopo aver fatto fuori le scorte di rosso del locale, Nino rivolgendosi al cameriere:
 - Très  bien, - lasciando qualche spicciolo di mancia al cameriere .
  Amleto preoccupatissimo: - Dopo tutto il rosso, ancora tre bianchi?
 Era questo il livello culturale, questi i problemi esistenziali del gruppo. Ma veniamo all’episodio che mi riempì di lacrime e mi fece andar di traverso il vino.
 Non eravamo ancora usciti dall’inverno e il cielo minacciava pioggia, mancavano una decina di minuti alle tredici quando entrai nel bar di Armido. In fondo al bar, seduti a un tavolino, trovai Nino e Amleto in compagnia d'una donna che non avevo mai visto prima. M’invitarono a unirmi a loro e di portarmi dietro un bicchiere vuoto. Accettai l’invito; e mentre uno dei due mi presentava questa signora, l’altro già mi versava da bere temendo che rifiutassi.
 La cinquantenne aveva un aspetto molto gradevole: occhi vispi, bocca carnosa, mascella quadrata e capelli rossi e ricci le davano un aspetto giovanile nonostante l’età. Il tavolino ne nascondeva il corpo, ma, da quel poco che si poteva intuire, doveva essere ben fatta.
 Questa single era una vecchia amica di Nino; dai loro discorsi si poteva arguire che avesse reso felice più d’un uomo. Un buon motivo per risultarmi simpatica all'istante. In un momento di pausa, Amleto rivolgendosi a me, e ad alta voce:
 - Te la scoperesti?
Dopo qualche attimo imbarazzante, risposi:  - Ma sono domande da farsi?
 - Ma ci andresti insieme?
 - Sta’ attento a come parli! Forse è lei che non si metterebbe con uno più giovane.
E stavano ripartendo i vecchi ricordi, quando Amleto li interruppe di nuovo e rivolgendosi a lei con una frase ancor più inopinabile, addirittura sconvolgente:
 - Gheto tanto pel?(3)
 Rimasi a bocca aperta, Nino abbozzò  un sorriso e la donna, che non si era ancora rimessa dalla sorpresa, dopo qualche attimo di silenzio:
 - Abbastanza!
 - Ma gheto tanto pel?- incalzando.
 - Credo come quello che hanno tutte le donne?
 - Perché me piase le done che le gha tanto pel.
 Avevo appena smesso di dire a Nino di non dargli più da bere, quando ancora:
 - Ma gheto tanto pel?
 - La donna con voce implorante: - E dagliela!(4)
 - Ma gheto tanto pel?
 - Te l’ho già detto, come hanno tutte le donne… né più né meno.
 - Ma mi vorria saver se ti te ghe tanto pel.(5) 
 La femmina si fece di porpora e alzando il tono: - Senti belo! Vuto gusarme o farte un maion?(6)


 (1) Prostitute.
 (2) Fornicano.
 (3) Hai tanto pelo?
 (4) Piantala!
 (5) Ma vorrei sapere se hai tanto pelo.
 (6) Vuoi fottermi o farti un maglione?
 

 

 

giovedì 11 luglio 2013

ALTA BORGHESIA


  Per la mia folta capigliatura e per il fatto che fin da piccolo ero piuttosto ribelle, a sedici anni cominciarono a chiamarmi Calvino. Questo era il nomignolo comunemente usato sia dagli amici all’oratorio che dai compagni di classe.
 A essere sinceri, all'inizio mi dava un po' fastidio; come del resto poteva capitare per qualunque altro soprannome. Anche perché non credo che ne esista qualcuno accettabile, a meno che non sia un'abbreviazione o una vezzosa alterazione del nostro nome. Con il tempo, ci feci l'abitudine perché tutto sommato mi si attagliava alle perfezione. Con il cognome o il nome  venivo chiamato solo durante gli appelli a scuola e in famiglia.
 Ma che nella prima metà degli anni Sessanta gli amici di mio fratello mi chiamassero "Senior", "Senior di Alta Borghesia" mi stava sul gozzo. Mi bastò vederli un paio di volte darsi di gomito e sentirli sussurrare:
 - Ecco che arriva Senior di Alta Borghesia.
Cos'era quella novità? E cosa voleva dire quel nuovo epiteto? Ne aveva già uno che mi stava a pennello e a cui aveva fatto ormai il callo. Quel senior poi, mi faceva pensare a quel simpaticone di mio fratello.
 S’era laureato a Parma in Giurisprudenza e s'era impegnato a gestire il negozio di ottica di mio padre. Dotato di buona memoria, appassionato d’arte e amante del sapere, si esibiva in chiacchierate che non avevano fine. Parlava e parlava, citando autori noti e sconosciuti; se poi aveva qualche antipatia pestava forte, mettendo avversari e presenti in tremende situazioni imbarazzanti. Con le ragazze suonava il piffero magico. Poverette, venivano via più frastornate che incantate. Non era davvero secondo a nessuno per via di parlantina! Naturalmente, tentava con tutte quelle belle, e, se non ci stavano, le faceva passare per ignoranti come le zappe oppure per quelle che avevano "l’aglio che sapeva d'alito". Se poi indovinava qualche battuta, allora apriti cielo! non era più finita. Se ne faceva bello e le citava fino alla nausea. Con le ragazze era d’una perseveranza incredibile, come cane che non molla l’osso. A volte si esibiva in certe scene da baraccone da non sembrare addirittura  normale. Ve ne narro una sola.
 Un giorno, prima di pranzo, lo vidi tener con una mano il telefono che stava sulla cassapanca dell’ingresso di casa e, allungando le braccia, con l'altra picchiare con un mestolo le pentole sul lavandino della cucina. Tentava d’aver un appuntamento con qualcuna cui doveva confessare cose importanti, a detta sua. Secondo la ragazza, era un pretesto per saltarle addosso. Ma lui spergiurava che non poteva spiegarsi al telefono, dato il rumore proveniente dalla cucina. E queste sceneggiate le faceva anche in presenza di mia madre che sconsolata scuoteva il capo.
 Con le ragazze aveva anche una tecnica tutta sua, studiata a tavolino, secondo lui. Come dal cielo scendevano le prime gocce, piantava lì tutto e saliva in automobile passando dal fiorista dove acquistava un mazzolino. Batteva poi le fermate degli autobus o le strade principali offrendo passaggi a tutte le ragazze che incontrava, sia che avessero l’ombrello o che dal cielo venisse giù solo qualche goccia. Quando gli andava buca, da gran ruffiano portava i fiori a mia madre che si commuoveva sempre.
 Alle malcapitate, al contrario, raccontava sempre la stessa solfa. Doveva andare da una ragazza a portarle un mazzolino di scusa, ma non se la sentiva, anche perché la vecchia morosa non lo capiva e c'era sempre da litigare. Ormai di quella non gli interessava più nulla, incantato dalla dolcezza e dalla bellezza di chi aveva davanti. E dopo averle offerto i fiori, sentiva il bisogno di rivederla. Applicava la legge di papà: ”Una su dieci ci sta”.
  Ma per quale motivo gli amici lo chiamassero “Alta Borghesia” mi sfuggiva. Tuttavia, c’impiegai poco a scoprirlo, anche perché Vito non sapeva tenere neanche l’acqua.
 Mio fratello aveva messo gli occhi su una ragazza con una carrozzeria targata Pininfarina. Questa ventunenne che frequentava la facoltà di Filosofia a Milano, come seppi più tardi, aggiungeva a bellezza e fascino anche un titolo nobiliare.
 Ricordo che mia madre in quel periodo era molto preoccupata e che continuava ad allertarmi dicendo:
 - Sta atent  a to’ fradel, l’è trop nervus; gho paura che el diventi mat per ‘na qual troia (1).
 Infatti, tutto leccato di domenica usciva di casa verso le dieci, per un controllo di sagrato, a suo dire. Mi spiego: usciva a quell’ora per andare a vederla o incontrarla alla fine della messa, mentre nei giorni feriali piantava in negozio mia madre e si recava in stazione all’orario del suo arrivo da Milano per poterle dare uno strappo in macchina.
 A forza di dai e dai, riuscì finalmente a portarla a cena in una trattoria sul piacentino. E il colmo della discrezione fu che anche i sassi sapevano che sarebbe uscito con lei.
 Come ben possiamo immaginare, dopo averla imbambolata di chiacchiere e vino, andò a parcheggiare in riva al Po a fianco della Canottieri Baldesio, un luogo sicuro e frequentatissimo dalle coppiette in quel periodo. Forse s'era messo in un posto appartato e al buio pensando che, con un po' d'insistenza, lei si consegnasse. Un vero peccato che le siepi e le fronde degli alberi siano mute! Avremmo avuto dei testimoni attendibili, al posto delle chiacchiere di mio fratello o delle mie vane supposizioni. In macchina, dopo aver tentato i primi approcci, spazientito ed eccitato Vito deve aver calato braghe e mutande. La ragazza senza far una piega, dopo uno sguardo di sprezzo se ne uscì con: 
 - Atteggiamento borghese.
 Mio fratello compiacendosi: - Prego, questa è alta borghesia,-  riferendosi al suo lui(2).
 Era questa la versione che circolava.
  Ma in una cittadina di sessantamila abitanti, le notizie si diffondono in un baleno, arrivarono anche alle orecchie della ragazza in questione che si premurò di dare alle amiche la sua versione. In effetti, come cambiano le cose dette da una persona all’altra!
 A una chiacchiera che passa di bocca in bocca ciascuno ne aggiunge un pezzo; ho cercato di togliere tutti i fronzoli che l’avevano più o meno contaminata, e ne ho fatto una breve sintesi. E sentite quanto la soluzione purgata sia ben diversa. Credo addirittura che ne abbia migliorato la vera versione.
 - Atteggiamento borghese.
 - Prego, questa è alta borghesia.
 - Non sempre la nobiltà è costretta a chiedere la carità alla borghesia…  pur alta che sia.
 E sbattendo la portiera, uscì dalla macchina lasciandolo a bocca asciutta e a sedere scoperto.


 
 (1) Sta attento a tuo fratello, è troppo nervoso, ho paura che diventi matto per qualche donnaccia.
 (2) Lui si riferisce al pene.

 

 

 

domenica 7 luglio 2013

SUL CORSO






  Alla fine degli anni Cinquanta, a Cremona la passeggiata serale dei giovani si svolgeva lungo Corso Campi. Si partiva dall’ingresso presso i giardinetti della Galleria XXV Aprile, un’imponente costruzione dell’epoca fascista, e, dopo averla attraversata, si sbucava in Corso Campi. 
 Si camminava lungo una via di circa centocinquanta metri che alla fine si restringe e si biforca. Andando diritto s'imbocca Via Palestro, mentre curvando leggermente a sinistra si prosegue per Corso Garibaldi.
 Mentre la maggior parte di noi ragazzi tornava indietro, altri allungavano il cammino proseguendo per Corso Garibaldi fino alla chiesa di Sant’Agata. Questa era la nostra vasca: chiamata in questo modo per il semplice fatto che il percorrerla più volte ricordava l’andare e venire in piscina.
 La via si snoda sulla linea Est-Ovest, probabilmente su una parallela del Cardo Massimo, ed è quindi  in buona luce. Purtroppo non ha monumenti, ma solo qualche palazzo di fine Ottocento. Il marciapiede più battuto per chi si dirige verso la galleria, oltre a essere il più stretto e sconnesso, era quello di sinistra. Non c'era una spiegazione perché questo avvenisse.
 Sono ormai trascorsi tanti anni e, anche se ritorno solo qualche volta a Cremona, non ho più l'occasione di passare alle diciannove per il centro. Mi dispiace di non poter tenervi al corrente di come sia il passeggio al giorno d'oggi, se esiste ancora e se è ancora così frequentato.
 Ricordo che ai miei tempi la giornata non era completa se non si facevano almeno tre o quattro vasche. Era il nostro rito prima di cena.
 I marciapiedi in pessime condizioni; la strada in ciottolato, solcata nel centro da un binario in lastre di marmo bianco dove passava il filobus, era ancora aperta al traffico in entrambi i sensi di marcia. Nonostante tutto questo, era la via più commerciale della città.
 Ma la mia nostalgia non è dovuta al fatto che avessi in bocca l’alito dei vent’anni, che il giornale costasse trenta, il caffè cinquanta, le sigarette sulle cento lire. A quei tempi, la gente sorrideva; gli uomini quando incrociavano le signore chinavano leggermente il capo e alzavano il cappello in segno d'ossequio. Dalle diciotto e trenta alle venti i giovani scendevano in ghingheri per il corso alla ricerca d’uno sguardo, d’un incontro, d’un invito. Mentre le ragazze puntavano al matrimonio, i ragazzi alle loro curve. Al sabato e alla domenica era una gran festa: arrivavano perfino dalle campagne. E questo fiume straripante di gioventù, verso l'ora di cena, si prosciugava. Desideri e sogni erano rimandati al giorno dopo.
 Protagonista di questo episodio, e che a quei tempi sollevò scandalo e scalpore, fu uno dei galletti che si dedicavano al culturismo e alla palestra. Un bulletto insomma, di nome Joe. Sotto il metro e ottanta, ben piantato e senza essere troppo gonfiato, menava sventole da far paura e, tra un cazzotto e l’altro, frequentava il quarto anno di Medicina a Parma. Già era famoso per averne combinate parecchie quando accadde questo episodio che lo portò sulla bocca di tutti.
 Al giorno d'oggi, un fatto del genere, con quel che accade o si vede in televisione, non susciterebbe alcun stupore, ma allora fu considerato uno vero scandalo. 
 Se ne veniva con un amico lungo la via quando venne fermato da madre e figlia a metà corso. Scambiati i convenevoli; queste conoscenti erano appena tornate dal mare e si vantavano d’aver frequentato gente famosa. La madre, tirata a malta fina e con vistosa collana su ampia scollatura, raccontava con orgoglio ai giovani le favolose vacanze estive della bella e giovane figlia, ormai giunta all’ottavo mese di gravidanza. Si dilungava nel narrare le feste, le scorpacciate di pesce, le uscite in barca. Parlava e parlava, mentre la figlia impacciata, senza però dar segni d'impazienza, se ne rimaneva muta. Da vera chiacchierona passava dalle vacanze alle faccende di casa, aggiungendo che in famiglia fervevano i preparativi per il nascituro. Avrebbero desiderato un maschio, ma se fosse arrivata una femmina sarebbe stata la stessa cosa.
 Questa era la musica. Le chiacchiere avevano già preso le pieghe della noia e dell'esaurimento quando la madre dando un paio di colpetti sul pancione della figlia:
 - E lei dottore, che ne dice di questo?
 E Joe: - Di cosa?
 La madre ripetendosi: - Di questo?
 Joe tambureggiando sul pancione come aveva fatto la madre, sorprendendo un po' tutti con disprezzo:
 - Questo?... Questo è il solito scherzo del cazzo! 


  

 

 

 

 

 

 

 

lunedì 1 luglio 2013

E ADESSO?


                                                                                           
 Ah, le donne! Non finiscono mai di stupirci. Fantastiche e fantasiose sono poi nelle loro domande e risposte quando fanno le finte ingenue. Quante volte le abbiamo sentite dire: - O Dio, ma cosa ho fatto?- fingendo di pentirsi. Oppure: - E adesso, cosa facciamo?- pur sapendo benissimo cosa fare. Ecco l'argomento per un buon racconto.
 Negli anni Sessanta, per noi giovani era difficile trovare posticini adatti per amoreggiare. Se erano sposate, in alberghi o in qualche locanda fuori mano non venivano per timore di lasciar tracce; se erano nubili, era la vergogna che le tratteneva. E noi non eravamo neanche così ricchi da permetterci un paio di locali da usare come scannatoio. Per combinar qualcosa, c'erano solo due posti: l’aperta campagna o la macchina. Raramente poi si riusciva a portarle in casa nostra o entrare nella loro. 
 I giovani del giorno d’oggi la cantano bella: fino agli anni Sessanta i genitori non permettevano che i loro ragazzi amoreggiassero in casa, mentre già negli anni Ottanta, alcuni miei amici al sabato sera ritardavano il loro rientro per lasciare più tempo ai figli. Addirittura al giorno d’oggi li lasciano che passino le notti insieme.
  Avanti coi tempi avevo mio fratello che s’inventò di portare in casa una mia ex allieva di domenica pomeriggio; mentre mia madre era andata in chiesa. Forse mamma non si era sentita bene e aveva abbandonato la messa, oppure mio fratello aveva fatto male i suoi conti. Insomma, inconveniente o errore di calcolo, mia madre se li trovò in casa. Lo sentì come un affronto; e ci volle un bel po' di tempo perché le passasse. 
 Qualche anno dopo avevo come ragazza una biondina che era tutta tette, e credetemi: non sto esagerando se affermo che superavano la quinta misura. Un reggiseno che le andasse bene non c'era in commercio, rimediava con quello foggiato da quella brava donna di sua madre. Piccola di statura ma ben proporzionata, con un viso paffutello e i capelli ricci portava quell’esuberanza con sofferenza. La nostra gente poi è molto delicata nel metterci a proprio agio, punta sempre gli occhi sui nostri difetti.
 Ma torniamo alla mia "tutta tette". Per nasconderle, camminava perfino gobba. Le spingeva talmente in basso che si poteva pensare che fossero mosce. Al contrario, come le metteva in libertà, esplodevano. Sotto la doccia o sotto l’effetto delle mie carezze e dei miei baci rifiorivano: diventavano così turgide da sembrare di gomma.
 Un giorno che eravamo andati in camporella dopo un temporale, non potendo scendere dalla macchina essendoci ancora bagnato in terra, ebbi la fortuna di parcheggiare la mia Cinquecento di fronte a un campo di granoturco, ignorando che fosse pronto per il raccolto. Le piantine andavano fin troppo bene per proteggere il parabrezza da sguardi indiscreti. Nudi nudelli si facevano le nostre cose quando fummo allertati dal rombo d’una macchina agricola che s’avvicinava. Alzando il capo, sia dietro che ai lati, non notai nulla; ma il fracasso aumentava, sembrava che provenisse proprio sul davanti, stava diventando un frastuono terribile. In preda al terrore girai la chiave del motore e mi attaccai al clacson. Appena in tempo! Davanti ad alcune piantine rimaste in piedi s’arrestò un mostro meccanico, simile a quelli che si vedono sulle autostrade quando spalmano l’asfalto. Alla guida, c’era un vecchio contadino con un grande cappellaccio di paglia. Dopo la momentanea sorpresa, tra il sorriso gli uscì chiaramente la frase: ” Se ne avessi di così piene in stalla sarei il più ricco del paese”.
 Purtroppo i miei rapporti con quella ragazza erano sempre troppo veloci e non soddisfacevano appieno i miei appetiti. Volevo far le cose per bene e in piena libertà, senza soffrire del terrore d'essere osservato da sguardi indiscreti. La volevo poi voltare e rivoltare fino allo sfinimento. Non ne potevo più di teli sui prati o di contorcimenti in macchina, sognavo un materasso, un letto.
 A forza di pregarla e assicurarla che non avrebbe corso alcun pericolo, riuscii a convincerla a far un salto in casa mia. Su mio fratello non potevo contarci: avrebbe potuto giocarmi qualche tiro. Per evitare inconvenienti, mi avvalsi dell’aiuto d’un amico. Doveva far la guardia al negozio d'ottica sull’angolo di Via Bertesi: se dalla bottega fossero usciti mia madre o mio fratello, in bici sarebbe corso in Via Volturno ad avvisarmi.
  Il giorno stabilito, diedi a mia madre un passaggio in macchina fino al negozio e, passando, salutai con un cenno la mia sentinella che era già sul posto di lavoro. Ripassai dopo un quarto d’ora con la ragazza, e andai a parcheggiare nei giardinetti di Piazza Castello.
 Avevo architettato il piano con la cura che hanno nei film i furfanti a preparare il colpo grosso. M'ero raccomandato perfino che non mettesse alcun profumo.
 Venne al citofono dopo cinque minuti dal mio rientro. Non volevo che qualcuno ci vedesse entrare assieme. Arrivò con il fiatone e con il petto che sussultava, l’abbracciai e la tenni stretta per qualche minuto. Smorzai in tal modo appetiti e tensioni di entrambi. Dopo aver sorseggiato insieme dei Campari  Soda, lei entrò in bagno e io unii i due lettini nella stanza da letto. Venne il mio turno, e entrai in camera volando come se mi aspettasse il paradiso.
 Nuda, accanto alla finestra socchiusa e con le persiane abbassate, con l’avambraccio destro cercava di contenere le tette mentre con la mano sinistra copriva la parte bassa. Io ero ancor più buffo e mi avvicinavo a lei con l’asta in resta. Una temperatura dolce e una luce soffusa invitavano all’amore, ma lei aveva gli occhi sbarrati e quando le arrivai a tre passi, mi bloccò con un:
 - E adesso?
 - E adesso, cosa vuol dire?
 - E adesso, cosa facciamo?- rispose lei.
 Ammutolii, mi guardai attorno e poi cominciai a dar i numeri. Mi produssi in una delle mie esibizioni più bizzarre e più folli.
 - Se non sbaglio, - roteando gli occhi come un matto – questa è una stanza da letto in stile Chippendale. Armadio a cinque ante, due comodini, due letti, due poltroncine in perfetto stile; due scendiletto, lampadario e gli abat-jour in cristallo, in color verde acqua e a foggia di foglie. Ma guarda lì! Una Madonnina fuori posto che si vergogna un po’. Osservandola bene questa stanza mi sembra  la mia. E poi ci siamo io e te nudi…  Ma noo! -  E dopo averne dette ancora tante, alla fine:  - Eureka, ho trovato! Siamo in un girone dantesco: siamo tra i lussuriosi.
Presi fiato, poi riattaccai gridando:
 -Ma a che gioco giochiamo?
  Si spaventò. Abbassai allora il tono, e assumendo un’aria più conciliante:
 - Senti: vado in cucina a prendere le carte. Sarà un nuovo modo per giocare a briscola.
 La sua fronte si spianò e accennò a un sorriso. L’interpretai come un invito, e non potevo farmelo sfuggire. M'avvicinai, l’abbracciai e, mentre la gettavo sul letto, all’orecchio le sussurrai:
 -  Sei proprio una donna!
 E poi?...e poi giocammo a scopa.