sabato 7 settembre 2013

BASTA CHE TE TASA


  Mia madre ha vissuto da sola nel suo appartamento a Cremona in Via Volturno 62 fino alla bella età di novantadue anni, finché un giorno, a causa di un’ernia iatale, ebbe un crollo.
 Un malanno che la faceva terribilmente soffrire e che trascurava. Non seguiva né la dieta che le era stata ordinata, né prendeva con regolarità le medicine che le avevano prescritto. Non tollerando oltre i dolori, per disperazione un dì arrivò a scottarsi con un ferro da stiro la pancia nel tentativo di digerire meglio. Negli ultimi tempi s’era ridotta a vivere, a nostra insaputa, solo di yogurt per poter mandar giù qualcosa; ma la cattiva e scarsa alimentazione la portarono a precipitare in un terribile stato febbrile che la costrinse a essere ricoverata d’urgenza all’ospedale.
 Lei, che era nata già chiacchierona, a causa della febbre alta era stata colta dall’eterolalia: una loquacità delirante che la rendeva ancor più gioviale del solito. Tuttavia, il suo stato preoccupava, anche perché in quel suo chiacchierare c’era un qualcosa che non quadrava.
 Al giorno d'oggi, negli ospedali non ci ospitano più tanto a lungo; se potessero ci caccerebbero via con ancora le budella in mano o con il sangue che ci cola addosso. Infatti, come si riprese di quel poco, non potendo tenerla oltre ci consigliarono di ricoverarla in un ospizio. Già! Ma non si chiamano più così oggigiorno, c’è chi vuole che siano chiamati luoghi di accoglienza.
 Da quando è uscito Il Gattopardo, è diventata ormai una mania quella di cambiar i nomi per non cambiar nulla. Al cieco, al sordo, allo zoppo, al deficiente e ad altri sfigati, aggiungono il suffisso leso al termine video, audio, cerebro e così via. Non solo, ma fanno di più, anche a certi lavori e ad alcuni impieghi hanno cambiato i vecchi nomi. Eh, sì! lo spazzino o il becchino non sono più spazzino o becchino anche se fanno sempre lo stesso mestiere. Non parliamo poi di quelli che hanno sostituito qualche nostro vizietto con nomi in Inglese: come gay, escort, pusher e tanti altri.
 Che i vecchi termini fossero cacofonici, volgari, offensivi? Non mi sembra. Se alla rosa diamo un altro nome, forse non rimane sempre il più bel fiore? Muta forse qualcosa? Perfino ai partiti hanno sostituito i vecchi nomi, senza cambiar nulla. A questo punto, mi prende la voglia matta di gridare “merda”! prima che me la tolgano dalla circolazione e dal vocabolario.
 Ma ritorniamo a mia madre. Le era stato diagnosticato l’Alzheimer, considerata per questo pericolosa per sé e per gli altri. Mio fratello, attraverso le sue conoscenze, le trovò posto nella casa di cura a San Bassano, un paese vicino a Cremona. Per mancanza di posti, fu messa, in un primo momento, in un settore dove le ricoverate erano veramente fuori di testa.
 Di domenica o di lunedì andavo a trovarla, e in quel reparto ogni volta incrociavo una coppia di donne che continuavano a camminare avanti e indietro per ore e ore lungo i corridoi come disperate. Una di queste, non male in arnese e forse anche più giovane di me, sia nel camminare che nel modo di fare cercava sempre di farsi notare. Un giorno, questa donna s’avvicinò a mia moglie e in tono confidenziale:
 - En qual de, me a quel le ghe ne do tante che ghe passa la voia.(1)
 E Teresa di rimando: - S’accomodi pure, cara signora. Non sa che piacere mi fa.
 Questo episodio mi viene spesso ricordato da mia moglie per rinfacciarmi la mia faccia da schiaffi; ma lei non sa ancora adesso che, quando l’incrociavo, punzecchiavo quella donna facendole l’occhiolino.
 Per il sollievo di noi familiari, mia madre cambiò reparto, finì in un posto più ampio e più tranquillo. Nonostante questo passo in avanti, si rifiutò sempre di legare con le altre ospiti; così dovevamo chiamarle: era un’offesa grave dire che erano delle ricoverate.
 Disdegnava e disertava le sedute di gruppo e, oltre a guardare rare volte la televisione, implorava con insistenza alle inservienti un’occupazione. Abituata a lavorare tutta la vita, chiedeva d'essere d’aiuto. E quelle brave donne le permisero di asciugare le posate in cucina, di sistemare le garze, di mettere in ordine fazzoletti, tovaglioli: tutte piccole occupazioni, proibite per le ospiti, ma che  tolleravano per dar sollievo alla sua infermità e rendere più sopportabile il ricovero. Poco importava se questo fosse contrario alle regole del sindacato e a quelle della casa di cura. 
 Con il tempo, la sua memoria divenne sempre più debole: si scordava ormai della sua casa e di mio padre. Il trovarla ogni volta sempre più serena era per me un gran sollievo, annullava in parte la tristezza e il dolore di vederla chiusa là dentro. Ora, scrivendo questi ricordi, mi prende l’angoscia se penso che anch’io finirò i miei giorni in una struttura uguale, dal momento che i medici s’impegnano a farmi morir sano.
 Lasciamo perdere i cattivi pensieri e ritorniamo a mia madre.
 Ogni domenica la portavo al ristorante dove, stare in compagnia, qualche nuovo piatto e qualche bicchierino la rendevano più allegra. Per manifestare la sua gioia, partecipava attivamente ai discorsi, soprattutto sui tempi di cottura, sugli ingredienti, sulle salse, su tutto quello che le nostre brave donne preparano in cucina. Nessuno l’avrebbe mai detto che aveva perso totalmente la memoria sui fatti più recenti, anzi, nei discorsi faceva ancora brillare il suo spirito sempre pungente.
 Un lunedì mattina la trovai circondata dall’aria festosa d’un nutrito gruppo di donne: tutte inservienti e infermiere addette al suo settore. Una di loro, piccola, sui trent’anni, non proprio bella, servizievole, ma a volte così ciarliera e petulante da risultar fastidiosa, quando all'improvviso, cambiando discorso, s'inventò di chiedere:
 - Signora Margherita, troverò anch’io un uomo che mi sposi?
 Senza pensarci due volte e senza tanti riguardi, facendosi seria:
 - Basta che te tasa!(2)



  (1) Un qual giorno a quello lì  gliene do tante che gli passa la volgia.
  (2) Basta che tu taccia.



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