mercoledì 19 marzo 2014

DAL PRETE PER LA LICENZA DI MATRIMONIO


 
 - Sei di Cremona vero? Anche se non ti ho mai vista prima, dimmi che sei di Cremona!
 Queste erano state le parole di mio fratello nella lontana primavera del Sessantasette.
 Percorrendo Corso Garibaldi e diretto in centro, aveva incrociato una gran bella ragazza di colore, di quel bel colore vellutato e abbronzato che hanno le ragazze dell’America Latina.
 In Cremona, che a quel tempo contava meno di sessantamila abitanti, s’era visto fino allora un solo moretto che correva per le vie. Era un boxer che s’allenava in una palestra cittadina avendo scelto come maestro un vecchio e glorioso atleta cremonese ch’era stato campione italiano in quello sport.
 Se fosse stata una delle nostre ragazze, come pretesto per attaccar bottone (1), poteva domandare il nome d’una via, dove si trovava una certa chiesa, addirittura la strada più breve per arrivare al museo e, visto che non gli mancava la fantasia, perfino la ricetta d’un dolce, pur di farla sorridere. Ma a quella bella moretta che altro poteva chiedere?
 Sorridendo, la ragazza rispose che era di Panama, che studiava a Bologna e che si trovava a Cremona ospite d’una amica.
 Fin che rimase nella nostra città, mio fratello riuscì a portarla più volte a cena a San Boseto in provincia di Parma, dove allora si magnificava uno dei ristoranti più famosi d'Italia. E la notizia si sparse in città. Tutti i giovani ruffiani venivano a complimentarsi con Vito per la favolosa conquista, mentre alle spalle sparlavano che scialacquava in cene e fiori a ogni loro incontro. Andò poi a trovarla più volte a Bologna e, in agosto, passarono le ferie a Parigi e a Madrid. Una vacanza milionaria. Basti pensare che negli aeroporti, per affrontare le attese, s'intrattenevano con ostriche e champagne, grazie anche a un mio congruo finanziamento che mi lasciò a secco. Al ritorno, la ragazza si trasferì per alcuni mesi a Losanna da una sua cugina sposata a un giovane promettente alto funzionario di banca.
 Vito dava i numeri: avvicinava le lontananze. Non solo sospirava ma volava, e ogni quindici giorni saltava da un aereo all'altro inseguendo il suo amore a Losanna o in qualche altra città europea, dove, come ospite, andava a trovare delle amiche che lavoravano nel campo della moda o in qualche spettacolo. Aveva proprio perso la testa, conquistato dal fascino esotico, dal portamento signorile e dalla bellezza di quella creola. Stanco di soffrire e di rincorrerla tra un aereo e l’altro,le chiese di sposarlo. Itza accettò. Mia madre, dopo qualche smorfia, si sciolse in lacrime: era il primo che lasciava il nido. Si sarebbero sposati in agosto a Panama, mentre con mamma avevo ricevuto il compito di portare avanti il negozio per un mese e più.
 Per completare gli incartamenti di matrimonio, un paio di amici dovevano recarsi dal nostro parroco per rispondere ad alcune domande e firmare certe carte che la curia d’oltre Oceano richiedeva. Mio fratello scelse Bigio e me. Ci recammo dal parroco di Sant’Ilario alle undici d’un mattino piovoso. Entrai per primo. Come mi vide, il prete mi chiese subito come mai non frequentassi la parrocchia. Gli spiegai ch’ero legato all’oratorio di San Luca e che mi sarebbe stato impossibile staccarmene. La seconda domanda fu tremenda:
 - Ho appreso con piacere che tuo fratello si sposa, l'hai mai visto fornicare?
 Ripresi fiato: - A dir il vero, no!
 - Credi che sia in grado di poterlo fare?
 - Per il suo bene, spero proprio di sì!
 - Ha avuto altre ragazze con cui è uscito?
 - Dire abbastanza è una limitazione. Quelle non sono mai abbastanza.
 - Visto che fai lo spiritoso, hai altro da aggiungere?
 - Se lo vuol proprio sapere, a volte, occupa il bagno un po’ troppo a lungo e credo che si faccia delle seghe(1) . Pardon!... Commetta degli atti impuri!
 - Dammi la carta d’identità! -  con l’aria seccata. E mentre copiava i dati mi chiese che lavoro facessi.
 Firmai le carte e uscii. Mi trovai di fronte Bigio che sorridente con lo sguardo m'interrogava.
 - È tutto tuo! - socchiudendo gli occhi, storcendo la bocca e accennando con il capo la porta.
  E lui: - Com’è andata?
  - Te lo racconterò un’altra volta: devo proprio scappare, altrimenti arrivo in ritardo a scuola e il preside mi tira per la giacca.
 Si può dire di tutto su casa nostra, ma di sicuro non ci si annoiava, visto che le novità entravano anche dalle fessure.
Mio fratello era al corrente di tutto quanto; però, per farmi quella gradita sorpresa, non mi aveva preavvisato. Mi raccontò che doveva poi recarsi in curia dal vescovo a depositare il documento compilato dal parroco, e che il prelato doveva preparare una lettera in Latino da consegnare al vescovo di David in Panama, dove, tra l’altro, si asseriva che era in grado di fornicare.
 Come uscì dall’oratorio, Vito divenne un mangiapreti tremendo, e ogni volta che ne conosceva qualcuno lo squadrava per vederne dall’aspetto o dagli atteggiamenti se poteva essere un omosessuale. Una nebbia tremenda l'accecava, ma per fortuna si limitava a dire che spesso i preti accarezzavano i giovani provando un piacere un po’ diverso da quello paterno, senza accusarli apertamente di pedofilia. Non era così maligno, per quanto fosse malizioso e prevenuto nei loro confronti.
 Quando gli chiesi come avesse trovato il vescovo, mi rispose laconicamente che batteva la fiacca e che, coni piedi sulla scrivania e con il sigaro in bocca, si pavoneggiava come qualunque capufficio. Poteva essere anche vero. Non ho mai approfondito l'argomento perché, per principio, non mi avrebbe mai detto la verità.
 Dopo aver subito interrogatorio e predica, Sua Eccellenza gli fissò la data per ritirare il documento presso la segreteria. Già, qui viene il bello! La lettera era sigillata con la ceralacca. Si pensi alla gran fiducia che hanno i preti nei confronti dei loro fedeli! Ma io non ridevo solo per quello, pensavo a Vito che non aveva via di scampo: doveva recitare il Credo, confessarsi e far la comunione con la fede del credente. Mamma mia, cosa si fa per amore! E per fortuna, l’ha anche scampata bella!  A quei tempi, i promessi sposi non facevano ancora i corsi preparatori per il matrimonio.
 Dopo una settimana mi rividi con Bigio al bar. Spesa qualche parola sull’impressione piuttosto sgradevole ricevuta dal prete, si andò sull’argomento.
 Bigio aveva raccontato che a una festa, entrando in una stanza da letto, aveva trovato mio fratello con una ragazza. Il parroco:
 - Ma cosa facevano? - con stupore.
 - E cosa vuole che facessero?
 - Vorrei sapere se fornicavano.
 - E cosa potevano fare sopra un letto?...  La cavalcava.
 - Ecco,- disse e scrisse il prete- fornicava. – e non ancora contento aggiunse - L’hai visto altre volte?
 - Proprio visto no, ma in compagnia siamo andati più volte in casino.
 E mentre gli faceva firmare la deposizione: - Lo sai che è peccato?
 Bigio sorridendo: - Ma sono peccati veniali che si possono cancellare anche con una semplice gomma per matite.
 - Cerca d'essere più serio! - rispose il prete irrigidendosi.
 Sulla porta, Bigio: - Don, sarete mica seri voi? che pretendete dei collaudi e, al tempo stesso, volete che non si debba fornicare.
 
(1)  Attaccar discorso.
(2)  Masturbazioni maschili.







sabato 1 marzo 2014

GIU' LE MANI DAL CULO


   Che fortuna! riuscire a dominare la voglia matta di mettere le mani su qualche bel culo di donna.
 E con l'andar del tempo, ho notato che questa foia è comune a tanti uomini, se non addirittura a tutti.
 A fine maggio del Settantacinque, con mia moglie andai in vacanza per una settimana a Capri. Avevo accettato l’invito di Gian Maria e di sua moglie Ida. Andare a riposarsi e a prendere un po’ di sole facendo qualche tuffo nelle limpide acque della nostra più bella isola, non era cosa di tutti i giorni. E chissà quando mi sarebbe capitato un'altra volta!
 I partecipanti erano press’a poco della mia stessa età, dai trenta ai quarant’anni, ed erano tutti impiegati alla IBM, essendo stata la ditta che aveva organizzato quella breve vacanza. Mi fu facile legare con loro: quando si parte, si lasciano i grattacapi a casa e ci si va con una gran voglia di divertirsi. Contrassi amicizia con Ezio e Bravi, entrambi vivaci e scatenati quanto me. E nonostante mia moglie mi fosse sempre alle costole, già con loro ne avevo combinate più d’una. 
 Verso le dieci d’un bel mattino, la compagnia salì su un pulmino per andare ai Faraglioni. Eravamo talmente appiccicati che non si riusciva a respirare. Bravi, che quel giorno era particolarmente allegro, lungo tutta la strada aveva storpiato la canzone di Harry  Belafonte “ Banana Boat". Ne aveva cambiato le parole e, intonandosi a quel “talami banana", cantava a squarcia gola quella del “ frutarol”(1). In preda all'euforia, per far salire sull’automezzo Leda, la moglie di Ezio, l’aveva aiutata spingendola con una mano sul fondo schiena. In pulmino, alla mia sinistra avevo Bravi e alla destra Ezio, io ero nel bel mezzo tenuto in piedi da loro due. Abbassando lo sguardo vidi che la mano di Bravi era ancora sul culo di Leda. Ma era un vizio o ci aveva preso gusto?
Lo giustificai pensando a "come si fa", dico io, "a non toccare quel ben di Dio?"       
 Rialzai il capo, e subito dopo lo riabbassai: la mano di Bravi era sempre sullo stesso punto d’appoggio e lo stava accarezzando. Alzando leggermente il capo, volsi lo sguardo verso Ezio che era preso dal panorama.
 Quell’eterno scapolone di Bravi s'era preso quella confidenza, non sembrava né turbato né eccitato: palpava il sedere con disinvoltura come ne fosse il legittimo e consacrato proprietario. Ritornando con lo sguardo su Ezio, lo trovai intento a osservare la mano. S’accorse che lo guardavo e, dopo un cenno a un sorriso e a una spallucciata, s’abbassò verso di me e sottovoce come per farmi una confidenza:
 - Lassa che i se goda!
“ Ma come? Gli palpano la moglie, e lui mi dice lassa che i …” fu il mio primo pensiero. Ma riflettendoci bene, e considerando che aveva detto i al plurale al posto di el al singolare, probabilmente pensava che la moglie credesse che la mano fosse la sua e non quella di quel furbetto di Bravi.
 Nei giorni successivi, li tenni sott'occhio tutti e tre per cercare di capire se l’episodio avesse creato dissapori. Purtroppo, anche se mi sarebbe piaciuto qualche screzio, tutto filò liscio come l’olio e, d’altra parte, non potevo andar a chiedere spiegazioni per non intorbidire le  acque. E ogni volta che ripensavo a quell’episodio, consideravo la saggezza di Ezio di lasciar perdere e di non aver dato importanza al fatto.
 Un giorno, avvenne che più o meno la stessa cosa capitò anche a me.
 Nei primi anni dell’Ottanta, fui invitato dai miei amici Montignani a una festa di carnevale. Non fu una gran festa, anche perché ci furono tanti sciocchi che non erano in maschera, nonostante sulla locandina, a chiare lettere, ci fosse scritto che era di rigore per i partecipanti l’essere mascherati. Chi non si vuole mascherare perché lo trova poco dignitoso o si vergogna, è meglio che se ne stia a casa. E mi meraviglio perché non vengano respinti all’entrata. Già, siamo in Italia! e ciascuno fa ciò che vuole per onorare la libertà di rispettare regole e leggi.
 In un capannone fuori città, organizzato dai ferrovieri o da qualche altra associazione di poveri lavoratori, alla modica cifra di trentamila lira, su lunghe tavolate e seduti su panche ci servirono un primo, un secondo, galani(2) , e oltre al vino a volontà, una mascherina, una trombetta, coriandoli e stelle filanti, dandoci poi la possibilità di fare tre salti.
In quella bolgia di duecento persone, mia moglie era vestita da zingara con trucco vistoso e grandi orecchini a cerchio; io portavo un saio da fraticello confezionatomi da Lucia, moglie di Montignani.
 A tavola, avevo alle spalle un settantenne che aveva incominciato ad attaccar bottone con noi e che, dagli sguardi e dai sorrisi, ammirava sfacciatamente mia moglie. Io andavo in giro per i tavoli a confessare le signore. Per dare la soluzione, le costringevo a prendere in mano il cordone del mio saio come suggeriva una vecchia e ben nota canzone profana che inizia con: "Chi bussa al mio convento con quest'acqua e questo vento?" E le donne sorridevano quando dicevo che le assolvevo per aver peccato più di desideri che aver soddisfatto alle loro voglie. Non c'era bisogno di risposte, visto che con i loro sorrisi mi davano ragione.
 Venne il momento d’andare al ballo. C'eravamo appena alzati da tavola, quando l’anziano ammiratore di Teresa come un gatto mi saltò davanti e, mentre si usciva dai tavoli verso la pista, mise le mani sul culo a mia moglie.
 Masticavo rabbia. Solo dopo tre balli con questo novello spasimante venne da me Teresa che seccata:
- Adesso balli solo con me! L'ometto va oltre la creanza; non ne posso più: mi stringe talmente tanto che mi toglie il respiro. 
 Non dissi nulla. Prendermela con quel vecchio l'avrei mortificato per niente, e se poi l'avessi confessato a mia moglie, oltre a trasformare un simpatico e focoso ammiratore in un fastidioso seccatore, ci sarebbe rimasta male. Alla delusione sarebbe subentrata la rabbia di non potersi sfogare. Non valeva la pena di rovinarle la serata.
 Durante il ballo allungai anch'io le mani.
 - Ma cosa ti sei messa?
 - Il busto come portano le zingare spagnole e una guaina. Perché?
 Non sapendo come giustificarmi, le dissi:
- Se qualcuno ti dovesse toccare il cecè (3) ti troverebbe soda, direi di marmo.
- E perché qualcuno dovrebbe toccarmelo? Ma scusa un po': per aver quarantatré anni è forse troppo flaccido?
 Ricordandomi della lezione di Ezio: che c'è più carattere e saggezza nello starsene zitti che nel parlare, eludendo la domanda, cercai di distrarla. Con una piroetta la portai fuori tempo. Poi, per non farla cadere la ressi, la strinsi, e le diedi un bacio.

 

 
       (1)  Fruttivendolo.
       (2)  Frittelle di carnevale.
       (3)  Sedere.