martedì 27 ottobre 2015

LA RIVA DEI BRUTI


  Me ne stavo a pranzo con i miei familiari in Piazza Dei Signori, seduto al Caffè Dante, quando venni distratto dalla gente ch’era in piazza.
 Constatai che non atterrava più nessun piccione. Non c’è più spazio per loro. Oltre ai tavoli della pizzeria, della gelateria e dei due ristoranti che occupano la bellezza di quasi metà piazza, attorno alla statua severa del nostro Dante, si davano il cambio a tutte le ore gruppi di turisti che, in tutte le lingue, ascoltavano le loro guide. E a quest'ora, il resto della piazza di fronte alla Loggia di Fra' Giocondo è sempre affollata da genitori e nonni che tengono d'occhio figli e nipoti. Delle piccole pesti che, con il vento in poppa, corrono e giocano in piena libertà. Giocano perfino al pallone. 
 Figuriamoci se mia madre o mio padre, appena finita la guerra, avrebbero giocato con me al pallone! E non ero il solo! Non ce n’erano di papà che giocavano con i propri figli. 
 A Cremona, dopo il Quarantacinque e fino ai primi anni Cinquanta, noi ragazzini andavamo a giocare con palle di stracci (rare e preziose erano quelle di gomma) sui sagrati, nelle piazze, nei vicoli, nei viali.  Bastava che ci fosse un po' di slargo per segnare una porta. Traffico automobilistico non ce n’era, e un solo semaforo lo regolava: quello che ancor oggi si trova a fianco della Galleria. Solo tre erano i vigili urbani, di cui due in bicicletta. E quest'ultimi venivano a rompere a noi ragazzini. Ci sequestravano le palle cercando di appiopparci delle multe. Un vero tormento! 
 Sapendo che l’oratorio di San Luca apriva a certi orari e che nell’attesa si giocava sul sagrato, arrivavano all’improvviso come falchi. Frequentavano i miei paraggi anche per un altro motivo: volevano pizzicare un mio amico che con il tirasassi andava in Piazza Duomo per procurare qualche piccione per la famiglia.
 Quando non si avevano palle, s’andava sulle macerie di Porta Milano a giocare ai Saraceni contro i Crociati. Battaglie che finivano sempre in liti: colpa delle bastonate che si prendevano sulle mani. Colpa mia, colpa tua!... era sempre colpa di qualcuno.
 Essendo il figlio del tabaccaio sull’angolo di Via Volturno, quei due ladri di palle mi conoscevano bene. Una volta, non era come capita al giorno d’oggi nelle scuole e sui campi di gioco, dove i genitori assalgono insegnanti, arbitri e allenatori; allora, quando le si prendevano, il resto lo si prendeva a casa, e non erano affatto carezze.
 Quei due invertebrati, oltre a consegnare a mano qualche lettera del Comune, ci tormentavano perché non c’era altro da fare. Ci davano la caccia non solo sui sagrati, sulle piazze e nei vicoletti, ma anche sulla spiagge del Po.
 Sui dodici anni e nel periodo estivo, s’andava a fare il bagno nel Po nei pressi delle vecchie Colonie Padane. In quel posto isolato, lontano da sguardi indiscreti e dove non passava mai nessuno, spuntava in riva al fiume un sabbione alto oltre il metro e dove sotto scorreva la corrente. Era il posto ideale per tuffarci essendo in curva, dove l’acqua, lambendo la sponda, era profonda a sufficienza. Veniva  chiamato da noi ragazzi la Riva dei Bruti. E fin lì arrivarono un giorno quei due sbirri.
 Il più odioso era quello con i baffi, a cui un giorno sgonfiai le gomme della bici. L’aveva appoggiata vicino al nostro negozio di tabaccheria ed era entrato dal macellaio accanto. L'angelo della vendetta mi suggerì di agire. Feci in un attimo. Per paura che venisse poi a cercarmi in tabaccheria, attraversai la via e andai a nascondermi a fianco del sagrato sull’angolo del negozio di Poli il cestaio, da dove potevo sbirciare senza essere visto. Gioii, vedendone la sorpresa e la rabbia. Per paura che mi cercasse anche per strada, mi precipitai in chiesa. M’inginocchiai sull’ultimo banco quando mi vide padre Erba che era appena uscito da un confessionale. Mi prese alle spalle, e con garbo:
 - Sei venuto per nasconderti da qualche marachella? 
 - No, no! Son qui solo per una preghiera.
 - Ah, non s’arriva in chiesa con il fiatone per una visita! – e scuotendo il capo se ne andò.
 Su tutti i Cristo della Via Crucis cadde un'ombra di rossore.
 Ritorniamo a quel pomeriggio di luglio. Eravamo solo in cinque. Dopo aver fatto tuffi e sguazzato in acqua, nudi come vermi ci crogiolavamo beatamente al sole. Mica si aveva il costume da bagno, ed era per quello che il posto era chiamato da noi la Riva dei Bruti. Confortati da una leggera brezza, a occhi chiusi ci si godeva un attimo di pace quando quei due ladri di palle arrivarono a passi felpati alle nostre spalle. Si misero davanti agli arbusti che fiancheggiavano la stradina di campagna, dove noi avevamo appoggiato le bici e appeso gli abiti, mutande comprese.
 Il trillo d’un fischietto ci fece sobbalzare. Si dava scandalo. Ma a chi, se non a loro due?
 Chiamatelo pudore, imbarazzo, oppure timore di apparire ridicoli davanti agli adulti, ma quel che mi fa ancora sorridere è che tutti noi ci coprimmo con le mani il pistolino. (1) E non era ancora passato lo spavento che quello dei baffi con sarcasmo cominciò a farci la predica, mentre l’altro segnava su un libretto i nostri nomi. Sorpreso di non conoscere un nostro amico: 
 - Senti biondino, non ti ho mai visto prima!... Dimmi come ti chiami!
 - E perché vuol sapere il mio nome?
 - Per compilare il verbale.
 Dopo aver scambiato con noi sguardi d’intesa:
 - Mi chiamo Nessuno e abito a Itaca.
 Dopo qualche attimo di sorpresa: - Senti novello Ulisse, non far tanto il furbetto: non ho voglia di scherzare … Dammi il nome!
 - Lo ripeto: il mio nome è Nessuno!
 Il vigile appoggiò la bicicletta a terra  e stava facendo il primo passo verso di lui quando il ragazzo scattò in cima al sabbione e gridando:
 - Li ho visti di là dal fiume. 
 E mostrando le chiappe, prima di tuffarsi, di nuovo gridò:
 - Invece del nome, segnati la targa! 
 Beh, cos’è che avete da obiettare?... No, no! Era un caro amico che abitava al di là del fiume: un gran bravo ragazzo, per essere un piacentino. 

 

  1. Piccolo pene.

 

 

 

 

sabato 24 ottobre 2015

UNO SGUARDO DAL BUCO


  Negli anni Settanta, contrassi amicizia con la proprietaria d’una famosa boutique che, con i primi freddi, organizzava ogni anno una sfilata di moda per proporre alla sua ricca clientela i nuovi modelli.
 Quella volta, pensando di poter fare un po’di pubblicità e dar prestigio al mio negozio, proposi di abbinare ai suoi abiti anche i miei occhiali. L’idea piacque e fu accolta.
 Una ditta emergente del Cadore m’inviò gratuitamente il suo campionario. A me restava il solo compito di far indossare alle modelle gli occhiali da sole o da vista che più s’intonavano al loro aspetto e ai modelli della sfilata.
 L'evento si sarebbe svolto in un teatro cittadino. Per l’occasione, era stata approntata una pedana che dal palco percorreva per il lungo quasi tutta la platea. Dietro al palco poi, avevano ricavato uno spazio dove le modelle potevano spogliarsi e cambiarsi. Come divisorio era stata messa una parete di compensato o di cartongesso. Ricordo perfettamente che nelle parete erano stati fatti due fori in modo da coprire tutta l'area da tener sotto controllo. Erano poi stati coperti da quadratini di schotch opaco che si confondevano bene con la parete. Li aveva fatti Carletto, una birba diciottenne alle dipendenze della boutique. 
 Spostare due grosse valige dal negozio al teatro e riportarle non era facile. Chiesi aiuto al mio amico Toni, con la promessa che avrebbe visto delle gran belle gnocche.(1) Sì, sì! è sempre lo stesso Toni Gussa! E chi altro m’avrebbe aiutato a portar pesi di quel genere?
 Quel  venerdì sera dopo le diciotto e trenta, arrivammo di corsa in teatro dove erano già cominciate le prove generali. Pagai subito il mio tributo indicando a Toni l’esistenza dei fori sotto al nastro adesivo. Con il braccio destro indolenzito, faticai notevolmente a scegliere gli occhiali adatti e rispettare i tempi d'entrata delle modelle in pedana.
 Durante la prima pausa, lo trovai che non fiatava incollato alla parete dove sberluciava. Venne da me Carletto lamentandosi perché il mio aiutante gli aveva rubato il posto d’osservazione. Gli risposi che sarebbe piaciuto anche a me darci un'occhiata. Per risolvere la situazione, e invidioso quanto basta, gli suggerii:
 - Facciamogli uno scherzetto! Ti prendi uno scatolone vuoto e, passandogli accanto, fai finta d’inciampare e lo urti contro la parete. Vedrai che si staccherà.
Quella del voyeur, si sa, è una malattia; mentre per il mio Toni quel curiosare era solo un piacevole passatempo. 
 Erano passati pochi minuti ed ero intento a sistemare alcuni occhiali nelle couvettes quando sobbalzai spaventato da un botto terribile e da urla di terrore. La parete che faceva da divisorio era crollata. Sotto a questa, tra fumi di polvere, scorsi una sarta e una modella; sopra le macerie, il mio Toni a gambe all’aria. Le ragazze  terrorizzate si coprivano le parti intime. Passato lo spavento iniziale, grande scoppio d’ilarità. Se ci fosse stato a terra uno sconosciuto, ne avrei sofferto, ma vedendo il mio amico faticai a trattenere le risate. Fortuna volle che la parete si fosse spezzata in due e non fosse finita sul pavimento ma, andando a sbattere contro un tavolo massiccio, aveva salvato dalla compressione le due povere donne.
 In preda a una crisi di nervi e tremando, la modella dava sfogo al panico con risate stizzose e attacchi isterici di pianto; mentre la sarta, lamentandosi per la botta, si massaggiava la testa e la spalla. Le  altre modelle, senza preoccuparsi di quelle due malcapitate, vedendo l’uomo a terra non finivano più dal ridere. L'espressione del mio Toni era uno spasso: smarrito per lo spavento e affranto dalla vergogna. Sentendosi poi tutti gli sguardi addosso, nel rialzarsi era ancor più impacciato. In piedi, si spolverava la giacca e riassettava i capelli prendendosela con Carletto. Questi per difendersi:
 - Caro signore, non dovevo trovarla tra i piedi. Coperto dallo scatolone non potevo vederla. È tutta colpa sua! Lo sa? Se lei non si fosse trovato lì a guardare dentro ai due fori della parete, questo  disastro non sarebbe mai successo.
 Presente al battibecco c’era pure la titolare della boutique, arrivata di corsa dalla platea. Dopo quella chiara confessione, contro il mio Toni, accompagnati da sguardi cattivi, fiorirono i primi sorrisi di sprezzo. Dopo lo spavento, a poco a poco le modelle si resero conto d’essere seminude.
Dovetti giustificare la presenza dell'amico come mio aiutante per il trasporto delle valige, mentre lui balbettava delle scuse per quel che aveva combinato. E, come offeso, senza salutare voltò i tacchi e se ne andò.
 Perso il mio prezioso aiutante, dovetti chiamare un taxi, e mi avvalsi dello stesso per la sfilata del giorno dopo. L’evento non ebbe nulla di nuovo né di bello da raccontare. Tutti i discorsi e le risate furono riservati ai ricordi del giorno prima. Ne saltarono fuori di tutti i colori. Ci fu perfino chi raccontò che un guardone s’era intrufolato nel teatro e aveva combinato quel popò di guaio.
 Ah, dimenticavo! Come l'ho messa con Toni? Con gli amici, si sa, basta una pacca sulle spalle: vale più d'una qualunque parola.  

 
    (1)   Donne.

 

venerdì 9 ottobre 2015

REGOLO




   
  Che simpatici i personaggi d'una volta! Ora di questa gente ce n'è sempre meno. Un vero peccato!
 Al giorno d'oggi, l'uomo mostra solo il suo aspetto triste: preso dalla vanità di ostentare, dalla fame di soldi e di successo, più che dalla voglia di vivere. Colpa della globalizzazione? Mah! È cambiato un po’ tutto quanto ... nei rapporti, nelle abitudini, nei valori, e in tutto quel che ci sta dietro.  Non so proprio come spiegarlo e cosa dire!
 Tra i personaggi singolari che animavano il centro di Verona dagli anni Ottanta in poi, in vetta alle classifiche si trovava un certo Regolo, soprannominato Barone per via di un De prima del cognome che ne nobilitava falsamente l’origine.
 Frequentatore della Bottega Del Vino e dei bar di Piazza Delle Erbe, questo falso barone aveva come nemico dichiarato un altro personaggio famoso: Cavra. Questi due si confezionavano alle spalle certi abiti da far invidia ai nostri migliori firmaioli.  
 Per alcuni, il nomignolo lo si doveva al fatto che non si lavasse; mentre lui, per giustificarsi, si gloriava d’aver avuto rapporti di lavoro con il famoso regista americano Frank Capra. Che vantasse conoscenze tra grandi registi e attori era pur vero, anche se esagerava sull’amicizia con Luchino Visconti, avendo collaborato con lui giù in Sicilia alle riprese del Gattopardo.
 Entrambi avevano un numeroso seguito di ascoltatori e ammiratori a cui non disdegnavano di scroccar bicchieri. Il pubblico del Cavra annoverava, in gran parte, pseudo artisti e pseudo intellettuali, mentre Barone si accontentava di gente più comune, anche se, bisogna dirlo, oltre a quella dei bar, frequentava anche un’altra compagnia. Quest’ultima  composta da nobili e ricconi sfaccendati che se lo tiravano dietro come un amicone perditempo, oltre che come scaltro giocatore di bridge.
  Feci la loro conoscenza quando ormai erano entrambi in età matura e vivevano di pensione. Ambedue scapoli: Cavra viveva solo, Regolo con la sorella che lavorava in Piazza delle Erbe. Mentre Cavra piangeva miseria per l’abbondanza della sua pensione, Regolo attingeva dalla borsetta della sorella. Dopo aver vissuto di lamentele e stenti, Cavra alla fine dei suoi giorni ricevette una grossa eredità che, purtroppo, da sfigato qual era, non ebbe tempo per godersela. Regolo, invece, si vantava d’aver ricevuto la pensione dopo aver lavorato solo due anni e mezzo. Roba da non credere! E come avesse fatto a ottenerla, è sempre stato un gran mistero.
 Secondo una voce messa in giro dal Cavra, si diceva che, quando Regolo doveva sostare in qualche albergo, telefonasse prima di arrivare chiedendo di sé, spacciandosi per il notaio Sperpero o per il dottor Manca e quant'altri. Si godeva da morire all'arrivo sentirsi dire: - Oh, finalmente! ben arrivato Barone  De ... c' è stato un sacco di gente che l'hanno cercata.
 Dal viso scarno, tristo, dai capelli rossicci e mossi, Cavra portava foulard al collo e fazzoletti nel taschino di giacche di poco conto o prese in liquidazione, atteggiandosi sovente ad artista e a viveur. Regolo, moro e dal viso tondo e sorridente, con l'espressione di chi se ne sbatte di tutto e di tutti, lo si vedeva spesso anch'egli con foulard e giacche blu, slacciate però, per via della pancia. Inutile dirvi che per convalidare la sua nobiltà i bottoni di tutte le sua giacche erano rigorosamente dorati.
 Mentre Cavra se ne andò per via del solito brutto male, per Regolo fu colpa del fegato che non resse al ritmo dei suoi brindisi.
 Il nostro Barone era famoso presso gli amici, oltre che per le sbronze e le frottole, anche per i suoi strafalcioni. Confondeva il colesterolo con il polistirolo, i collant con i dépliant, e in casa sua regnava sempre la lussuria invece del lusso. E di queste cantonate ne aveva in abbondanza.
  Celebre fu l’intervento d’un nostro amico mentre raccontava le sue avventure amorose. Una di quelle frecciate che rimangono epiche e che si raccontano ancora oggi come fossero barzellette. Non c’è affatto da stupirsi  perché certe stilettate alcuni se le vanno a cercare! E poi.. e poi i galletti vanno sedati quando cantano troppo.
  Quel giorno, alla Bottega Del Vino, attorniato da un notevole gruppo di ascoltatori raccontava che nel tal castello, nella immensa tenuta, nel grandioso palazzo, su letti splendidi e grandi come delle piazze d’armi, s’era fatto una marchesa, una contessa oppure una giovane attricetta. Tra questi ascoltatori, quel furbetto del nostro amico, dopo averne sentite quattro o cinque di queste sue magnifiche avventure, non sopportandolo oltre:
 -Senti, Regolo! Ma ti, non gheto mai ciava’ qualche bela serveta in un canton d’un condominio? (1)




     (1) Ma tu, non hai mai fornicato con qualche bella servetta in un angolo d’un condominio?

 

venerdì 11 settembre 2015

QUEL BEL CULETTO


  Accompagnandomi  con  persone non sempre a modo, mi capitava spesso di sprofondare dalla vergogna e, benché mi ripromettessi d'evitare situazioni dove erano possibili far brutte figure, a volte ci cascavo lo stesso. 
 Già dovevo star attento a qualche mia uscita o a qualche gaffe; se poi dovevo pure preoccuparmi delle puttanate che sparavano a raffica amici o compagni occasionali, allora sì, che stavo fresco!
 Ve ne racconterò una che, invece di rattristare, ebbe un epilogo piuttosto piacevole. Forse la sola  che mi sia capitata.
 Se ora notate che vocabolario e stile nei miei scritti non sono sempre uguali, non è dovuto a un capriccio, ma al semplice motivo che ogni racconto deve avere il suo linguaggio in modo che si adatti a ciò che si vuol narrare. Sbaglierò, ma io la penso così!
 Eravamo ai primi anni Ottanta, a quel tempo, il mio negozio era sull’angolo del Vicoletto Mazzanti. Verso le diciannove e trenta, stavo chiudendo il negozio quando entrò Marietto. Era venuto alla chiusura per accompagnarmi al bar per un goto e fissare gli orari per andare a giocare a tennis.
 Passato il vicolo e procedendo verso la Chiesa di Santa Anastasia, si trovava allora, dove adesso c’è una banca, un importante e grande negozio di scarpe, famoso in tutta Verona. E quella sera, davanti alla vetrina di quel negozio, consumava la vista con viva curiosità la mia amica Elsa. L’avevo riconosciuta dal suo bel culetto messo in evidenza da un paio di jeans attillati: fin troppo attillati.
 Elsa aveva allora superato la sessantina, era una single ed era stata l’amante di un mio vecchio amico, e forse lo era ancora. Sul metro e sessanta, aveva una siluette invidiabile per la sua età. Io ne avevo una quarantina, mentre il mio Marietto era più giovane d’una decina d’anni.
 Uscendo dal negozio, l’avevo appena superata quando Marietto tornò indietro e si fermò alle sue spalle. Sedotto da quel mandolino, non fiatava; anzi, muoveva le mani delineandone le curve come se volesse prenderne le misure. Non sapevo cosa fare: se avvicinarmi alla mia amica e prenderla sotto braccio e portarla via o strappare Marietto da quella posizione.  Se poi Elsa si fosse voltata si sarebbe di certo spaventata nel trovarlo a un palmo dal naso. Io poi ci avrei fatto una di quelle figure che si ricordano per tutta la vita. Mi auguravo di sprofondare.
 Sembrava strano che Elsa non s’accorgesse di nulla; forse era maggiormente impegnata nel cercare i prezzi  che i modelli esposti, essendo un periodo di saldi. Che fosse anche un po’ sorda? E quel cretino di Marietto, non poteva essere un po’ meno sfacciato nel prolungare quella focosa ammirazione?
 La mazzata finale non si fece tanto attendere. Marietto rivolto a me e a voce alta:
 - Beh! A un culetto del genere ci farei una bella pecorata. (1)
 Se non sono caduto a terra quella volta non svenirò mai più.
 Elsa, con più rughe d’un terreno arido e incolto, mostrò il suo viso sorridente e rivolgendosi a me:
 - Ciao, Monti! … Noto con piacere che il tuo amico ha buon gusto, -  guardandolo con simpatia.
 Rifiatai di sollievo. Mi tolsi dall’imbarazzo prendendola sotto braccio e:
 - Sù, dai! Perdonalo! Non ha tutti i suoi a casa!... Adesso però vieni con noi a bere un goccio.
 Ci recammo al Caffè Dante. Vai con il primo bicchiere, poi con il secondo, e così via via finché non si contarono più. M’era già successo con un’altra amica e con Toni Gussa.
 Quella volta, la malcapitata l’avevamo ingozzata di vino e di complimenti. Poi, con qualche facezia, ma soprattutto rovistando nei  ricordi dei bei tempi passati, quando caldi d’amore si sognava ancora, la portammo a una grado d’eccitazione tale da far venire certe voglie anche a una santa. E noi, da veri mascalzoni, l’abbiamo  abbandonata al bar, mezza ubriaca. Più che un tiro birbone, era stata una mascalzonata goliardica. Con questo, non divento rosso dalla vergogna, anche se qualcuno lo può considerare un calo di stile. Ora scusate: per caso non si dice che il colpevole ritorna sempre sul luogo del delitto oppure che l’assassino uccide sempre una seconda volta? Ebbene, noi ripetemmo con Elsa esattamente quel che era capitato qualche tempo prima a quella povera diavola che ebbe la sfortuna d’incontrare me e Toni.
 Ancor oggi, credo che se Elsa non fosse stata così alterata e piena, Marietto, dietro l’angolo, se la sarebbe fatta.

 

 

venerdì 5 giugno 2015

GITA PARROCCHIALE


 




“Guarda quanti uccelli ci sono in cielo quando ce ne sarebbe un gran bisogno qui in terra!”
 Questa constatazione, che potrebbe essere anche l'espressione d'un desiderio, era sfuggita durante una gita parrocchiale a una non più giovane vedova  a cui era mancato da poco il marito. Ma secondo voi, questo è un peccato?
 Buon Dio, sei stato Tu a dire che hai fatto l’uomo "a Tua immagine e somiglianza” oppure siamo stati noi?
 Se siamo stati noi, la cosa non è poi tanto grave, ma se sei stato Tu, la faccenda si complica. Tu sei solo spirito. Hai diviso le tenebre dalla  luce, hai creato il mondo, gli animali, e, tra loro, quell’eccellenza di bestia che è l’uomo. Che sempre bestia è. Forse eri rimasto deluso per il fatto che alcuni angeli si erano ribellati pur essendo solo spiriti, e allora hai provato con gli animali. Alle bestie invece di dare l’immortalità, hai dato la possibilità di moltiplicarsi e, per poterlo fare, nella procreazione ci hai messo il piacere. Oh, mica brontoliamo per questo! Anche se, al giorno d'oggi, in questo genere di cose c'è un po' di confusione, ci lamentiamo dei Tuoi preti che ci fanno apparire peccato tutto quello che ci da piacere. Quei maledetti che Ti descrivono tanto severo e pronto a castigarci, non solo per un atto impuro, ma anche per un semplice desiderio.
 In breve, Ti racconterò quel che è capitato a una Tua devota durante una gita parrocchiale quando con un sospiro espresse un piccolo desiderio. Per cortesia, non condannarmela adesso come vorrebbero i preti! Non ha fatto niente di male, Te l’assicuro! Anzi, spero addirittura che l’episodio Ti faccia sorridere.
 Le gite parrocchiali durano di solito un giorno e si svolgono in gran parte di domenica. Ci si alza al mattino presto, ci si bagna gli occhi e, dopo un veloce caffè fatto in casa, ancora assonnati si sale sul pullman che ci attende sul sagrato della parrocchia. Ci riceve il prete che, oltre a darci il benvenuto, ci fa qualche breve raccomandazione. Ci si conta e poi si parte.
 Appena usciti dalla città, si comincia con le preghiere e, come inizio, un rosario propiziatorio per una bella giornata non lo si toglie a nessuno. Finite le preghiere, qualche canto religioso o di montagna finché tutto si smorza e s'assopisce. Dopo la prima sosta all’autogrill, il pullman si rianima. Il prete parlerà del santuario, della pieve, del monastero o della cattedrale che si andrà a visitare, e anticiperà qualcosa sul Vangelo del giorno. Prima dell’arrivo, qualche litania non farà mai male. Giunti alla meta, subito in chiesa ad ascoltar la Santa Messa.
 Dopo la cerimonia, visita al tempio e ai luoghi sacri che lo circondano, e poi, in un batter d’occhio, arriva l’ora di pranzo. Finalmente un po’ di piacere per il ventre e di libertà per quelle brutte linguacce di donne! Non solo parleranno delle loro faccende, ma anche di quelle delle loro amiche. Quando poi si arriverà al prete, la lingua scivolerà su qualche malizioso pettegolezzo.
  Nel pomeriggio, visita a qualcos’altro. Fino a poco tempo fa si ritornava in chiesa per la Benedizione: funzione di cui oggigiorno se n’è perso l’usanza.
 Al ritorno da quella gita e verso l’imbrunire, ci si fermò all’autogrill. Tra le nostre nuove conoscenze spiccava per simpatia una sorridente vedovella sotto la sessantina, dai capelli ricci e dal culo grosso e basso.
 Era autunno, il sole d'ottobre allungava i suoi pallidi raggi dietro ai boschi di pioppi, e lassù, in cielo, oltre a nuvolette bianche, si muoveva fulminea qua e là una nube nera. Era un grandissimo stormo di uccelli che volteggiava su e giù con velocissime e improvvise evoluzioni. Roteando, s'abbassava o s’innalzava di qua, di là, avanti e indietro, come onde d’un mare in tempesta. Saliva in vortici di fumo per poi precipitare. Sembrava sciamare a volte, ma subito si riprendeva. Una magica danza di solitari storni che a sera s'adunano per innalzare un gloria a Dio. Quando poi lo stormo sembrava  ormai sparito dietro ai boschi di pioppi, riemergeva ancor più vivo e vitale arrotolandosi in girandole per poi evolversi  in armoniose impennate e cascate a non finire. 
 La signora in questione si accompagnava a mia moglie dirigendosi verso il pullman con il naso per aria, anche lei incantata da quelle funamboliche evoluzioni. Camminavo qualche passo indietro senza prestare particolare attenzione a loro.
 Che fosse una pura constatazione o un’invocazione d’aiuto questo non lo saprei dire. Poteva essere pure una preghiera che s’intonava con la giornata trascorsa, chissà! In fin dei conti, non era la richiesta d'una grazia personale, parlava a nome di tutte quelle bisognose d'aiuto, forse. Quel che si deve dire, lo si deve dire. In ogni caso, sentii chiaramente la signora che dopo un prolungato sospiro sbottò:
 - O Signur, ma perché tè ghet mis tanti osei in ciel quand che né un gran bisogn qui in terra? (1)

 

  1. O signore, ma perché hai messo tanti uccelli in cielo quando ce n’è un gran bisogno qui in terra? A quelli in terra si riferisce al nostro pene perché in dialetto chiamiamo il nostro membro anche uccello.

 
P.S. Questo dovrebbe essere l'ultimo racconto, anche se è stato scritto prima del tempo, per una eventuale pubblicazione cartacea. S'intende che ne farei solo tre copie.

giovedì 2 aprile 2015

PANE E CICCIA


  Ne combino di tutti i colori, invecchiando. Fra le tante, di venerdì notte verso le venti e trenta, salgo in macchina e vado a prestare il mio aiuto presso la Ronda Della Carità.
  Non chiedetemi perché mi son preso questo impegno. No! non sono obbligato. Lo faccio e basta.
 Come arrivo in sede, indosso i guanti igienici e mi metto con altri alla catena di montaggio per la preparazione di sacchetti da offrire ai clochard. Circa centotrenta in tutto. In ogni sacchetto mettiamo una bottiglia d’acqua e una di tè, un paio di panini, un frutto, dello yogurt, marmellata e, se ne abbiamo, anche qualche fetta di dolce.
 Prima delle ventidue, dopo che si sono fatte le divisioni per caricare il cibo sui tre furgoncini che ogni notte fanno il giro della città e della periferia, arrivano le taniche termiche con la pastasciutta e il minestrone. Quest'ultimo viene preparato e offerto dal marito della Graziella, mentre la pasta (pagata da noi) viene cotta e preparata dalla sezione degli Alpini di San Massimo. Si carica il tutto e si parte.
 Tre i furgoncini e tre i percorsi che si fanno per portare un piatto caldo e un sorriso a quelli che  dormono sotto le stelle. Questi tre percorsi vengono chiamati Rifugio Uno, Cimitero e Centro. 
 Ci s'ingroppa il cuore quando si da una mano alla miseria, e, a volte, basta un suo sguardo per
farcelo scoppiare. Oltre a questa felicità, non avete idea quanta gioia si prova di notte a girare per le strade deserte di Verona cantando e scrutando, se negli oscuri recessi, troviamo qualche povero disperato che ha fame. 
 Con maggior frequenza, vado  in giro con il Cimitero dove il capogruppo è il nostro Rino Allegro che, insieme al mio consuocero Corrado, mi hanno catturato e invogliato a partecipare a questa missione.
 Quando penso a ciò che sto facendo, mi pongo sempre la stessa domanda: “ Ma serve a qualcosa l’aiuto che portiamo a questa gente?” 
 Per gli ultracinquantenni lo si fa per farli sopravvivere. Hanno perso ormai la speranza di poter cambiare o migliorare; s’adagiano e impigriscono accettando con rassegnazione tutto ciò che arriva. Quelli dai trenta in su vivono chiedendo la carità agli angoli delle strade, davanti alle chiese e ai supermercati, facendo i posteggiatori o arrangiandosi con piccoli espedienti; tra questi, rari sono quelli che aspirano e ottengono qualche lavoro. I giovani purtroppo vivono solo di furti, di spaccio e sfruttamento della prostituzione. Pochi quelli che chiedono di lavorare. In gran parte, i nostri assistiti sono gente di colore, ed è una pena di giorno vederli frugare nei cassonetti.
 Siamo in tanti e non c'è lavoro per tutti. Noi Italiani sappiamo riceverli, ma non ce la facciamo ad assorbirli e a integrarli. Li salviamo solo da situazioni peggiori, visto che dalle loro parti la vita conta poco.
                                                                   C'è chi dice bene
                                                                   di questo mio impegno,
                                                                   c'è chi dice male
                                                                   e spreco il mio tempo.
                                                        Ma se allora sto a guardare,
                                                        non sfrutto il mio talento.
                                                        Riflettete per un momento,
                                                        e ditemi: - Cosa devo fare?                     
 Se ne può parlare e discutere per ore e ore senza venirne a capo di nulla. Oltre alle parole possiamo spendere solo qualche lacrima, anche perché loro di lacrime non ne hanno  più.
 Il mio compito, quando scendiamo dal furgone, è quello di servire l'olio oppure un po’ di sale e di peperoncino, da loro chiamato “il piccante”, sulla pasta o nel minestrone. Per simpatia, più d’uno mi chiama nonno o zio. Ricordo che una volta avevo un giovane rumeno che mi abbracciava e baciava, che mi gridava fin da lontano “papàaa”, facendo ridere tutti quanti. Però dovevo stare molto attento:  mentre mi abbracciava e mi sbavava in faccia con un alito da paura, il birichino con le mani sfiorava sempre il portafogli.
 Commoventi sono le gentilezze e la disponibilità di questi nostri volontari che di notte mi accompagnano in questa missione. E fin dall'inizio son rimasto turbato e scosso dagli occhi famelici di questi poveracci che s'avvicinano a noi silenziosi, con sospetto, curiosità e gratitudine. Ora ci ho fatto un po' il callo e soffro meno. Purtroppo, devo avere però un cuore debole perché sono inciampato in qualcosa che è più forte di me. Non mi ci voleva proprio! Facendo il giro del Cimitero mi sono affezionato a un ragazzino sui vent’anni. Si chiama Sofian ed è un marocchino.
 Magro, sotto il metro e ottanta, di pelle chiara per cui lo diresti piuttosto un nostro meridionale, anche perché parla molto bene l’Italiano. Porta gli occhiali da miope e arriva sempre in bici. La gentilezza nei modi e la delicatezza con cui chiede e risponde ha conquistato un po’ tutti quanti. È uno studente iscritto alla Facoltà di Lingue e, secondo quel che ci racconta, dorme presso amici mentre di notte arriva da noi per mangiare. Non sappiamo altro.
 Oltre ai volontari che fanno lo stesso nostro servizio, ci sono quelli che sono costretti per legge a prestare i servizi sociali e, in fine, i curiosi: per lo più, giovani di scuole superiori accompagnati dai loro insegnanti oppure gruppi di scout. Una notte, sul nostro furgone ospitammo due giovani ragazze piuttosto carine; Sofian diede a loro uno sguardo che parlava da solo. Se le mangiava con gli occhi. Lo dico sul serio. D'altra parte, cosa poteva fare un povero diavolo di vent’anni che nei calzoni ha un affare che non sta mai fermo?
 Sofian è talmente carino che, se qualche volta abbiamo qualche porzione di carne che non sia di maiale o di pesce, non sono il solo che gliela riserva. Una sera che avevo poco da offrire, m'è sfuggito di dire:
 - Beh, i fin dei conti, il pane l’hai avuto!
 Mi ha risposto con un termine che noi uomini pronunciamo sempre con disprezzo. Sembra volgare, quando di volgare non ha nulla e che, in questo caso, dice più del dovuto. 
  - Non si vive di solo pane, ci vuole anche un po’ di figa!

 

 

giovedì 26 febbraio 2015

IL POSTINO


  Eravamo nel Sessantasette, un paio di giorni prima di ferragosto mio fratello mi lasciò a terra, e con una bella creola prese il volo per Parigi e Madrid.
 La partenza improvvisa e la notizia comunicata solo a pochi intimi costrinsero la maggior parte degli amici di mio fratello ad arrivare in bottega per tutto il 21 agosto: giorno d’apertura del negozio dopo una settimana di sosta per le ferie estive. Fu un vero via vai. Entravano di corsa e, con faccia tosta, chiedevano a voce alta a mia madre:
 - È vero che Vito è fuggito?- i più delicati.
 - Ma è vero, signora Monti, che Vito è fuggito con una negra? - i più tremendi.
 E senza attendere risposte, ma solo dopo averne visto le sue occhiate, se ne uscivano ancor più veloci.
 Povera mamma, quanto ci soffrì! E quante ne disse a riguardo della ragazza è meglio lasciarvelo immaginare. Forse ne disse ancor di più sul conto di mio fratello per avermi lasciato a secco di denaro e illuso di trascorrere, assieme e per la prima volta, le vacanza estive. Lacrime di rabbia e di dolore che non furono così tante rispetto a quelle versate quando Vito andò a sposarsi a Panama.
 Partito a fine di luglio, sarebbe ritornato a metà settembre. A mamma e a me l’impegno di tenere aperto il negozio. Non potevamo volare fin laggiù, non solo a causa della bottega, ma anche perché il prezzo dell’aereo a quei tempi era piuttosto salato. In casa, si rimpiangeva il disagio di averci lasciato in mano il negozio dove lui era più competente.
 A mamma, sentimentale e romantica, piacevano tanto i soldi, e il suo sogno più grande era di farci sposare una donna ricca e non una che veniva da oltre Oceano e di cui non si sapeva poco o nulla. Non aveva tutti i torti. In fin dei conti, aveva due gran bravi ragazzi, laureati e con qualche soldino alle spalle, poteva quindi vantar qualche pretesa. Sfumato questo sogno, le rimanevano solo le lacrime per le possibili chiacchiere della gente. A scottare maggiormente sarebbero state quelle dei vicini di casa, dei clienti, perfino di quelli che non ci conoscevano affatto e che, pur di parlare, avrebbero detto un sacco di cattiverie. Si sa che la bontà ha una sola sfaccettatura mentre la cattiveria ne ha mille. E a queste fisime mia madre ci girava attorno e ogni mezzora ne aveva una nuova per potersi affliggere. Ma per quanto elucubrasse non si sarebbe mai aspettata quel che arrivò alla fine d’agosto. 
 Accadde che Vito e Itza, oltre alle telefonate e a qualche lettera, spedissero in negozio una cartolina di saluti. Era una vecchia fotografia: un dagherrotipo che ritraeva una capanna con davanti una numerosa famiglia di Indios.
 Il nostro postino, che sapeva di mio fratello, forse senza cattiveria ma solo per fare dello spirito, entrando in negozio con il sorriso e lasciando sul banco la cartolina:
 - Siora Monti, i ghà mandà la futugrafia dei parent!(1) 
 Ci voleva anche questa.
 Per un paio di settimane e forse più, all’ora di pranzo, invece di trovar pronto da mangiare, ero costretto a cucinarmi un paio d’uova, a cibarmi di tonno e cipolline, oppure a comprarmi dei panini con salame e formaggio. Non tutte le sere poi potevo andare a rifarmi in trattorie. Per non lasciarla sola, per consolarla e invogliarla a mangiar qualcosa, imparai a preparare dei risotti e a cucinare delle scaloppine.
 Mamma non riusciva a darsi pace. Quel maledetto postino chissà quante ne avrebbe raccontate in giro. E lei ne immaginava e ne rimuginava di tutti i colori.
 Senza ottener grandi risultati, la portai dal medico che le ordinò dei calmanti e dei ricostituenti. Si riprendeva solo un po’ quando di domenica, dopo aver fatto assieme una visita al cimitero, la depositavo da sua sorella Cleofe, in modo che si distraesse e che non pensasse al negozio, agli sposi e su ciò che la gente avrebbe malignato. Non avevo altro rimedio.
 Un giorno, fra tutte quelle sue lacrime riuscì a strapparmi perfino un sorriso. Troppo bella questa sua uscita per non doverla raccontare!
 Mentre sparecchiava la tavola, la sentii borbottare:
 - Non ghé più religion! … Anca el pusten el me tol per el cul! (2)


  (1)   Signora Monti, le hanno spedito la fotografia dei parenti.
  (2)   Non c’è più religione! … Anche il postino mi prende per il culo!

 

 

 

giovedì 19 febbraio 2015

IL BACCALA'


  La prima volta mi successe a Padova.
 Tanti anni fa, la ricorrenza di Sant’Antonio di Padova capitò di domenica, e con mia moglie si fece un salto al santuario. La bella giornata, nonostante gli aliti della Bora, invogliava all'aperto. Dopo la cerimonia in chiesa, a piedi si prese la direzione che porta alla stazione ferroviaria. All’altezza del Comune e dell’antico ingresso dell’Università, mia moglie mi fece notare un cagnolino che seguiva la sua padrona.
 - Guarda, Enzo, com’è carino!
 Dirlo cane è una parola un po’ grossa, in ogni caso, era un batuffolo riccio, pieno di nastri e di gale, con una copertina ricca di lustrini e brillantini come se dovesse andare a una festa.
 Chissà cosa mi prese! Forse un attacco di logorrea, oppure la voglia di esibirmi e far lo scemo; sta di fatto che mi fermai  davanti al cane e a voce alta:
 - Non dirmi che sei un cane? Ma ti sei visto bene allo specchio?... Non sei affatto carino, lo sai? Sei solo ridicolo!... Ah, già! Ma non è colpa tua … Vorrei vedere la faccia di quella cretina che ti ha conciato così! … Fa una cosa: ritorna a casa e va a struccarti! Se poi ti riesce di cambiar padrona fallo! … e alla svelta!  
 Qualche secondo dopo, una quarantenne in pelliccia si chinò, raccolse il cane e, dopo avermi dato un’occhiata di quelle che ti accoppano, s’infilò nella prima via di sinistra e sparì.
 Quel che non mi disse mia moglie ve lo lascio solo immaginare, e solo dopo aver risposto che:
 - Guarda che siamo stati da Sant’Antonio di Padova e non da quello del Porcellino. Non me la sono presa con quella povera bestia, ma con quella deficiente della sua padrona che vuol così bene agli animali che porta la pelliccia. Non dirmi che sbaglio! Pensa se quel povero cane si rendesse conto di come è stato ridotto? 
 Riuscii a calmarla un poco. E ne dissi tante e poi tante che alla fine, prima di salire sul treno, le strappai pure un sorriso.
 Più o meno, lo stesso episodio s'è ripetuto qualche anno dopo qui a Verona in Piazza delle Erbe. Questa volta però la faccenda andò diversamente. La bella trentacinquenne, anche lei in pelliccia e forse anche un po’ più troia(1) della prima, mi mandò volgarmente a quel paese senza lasciarmi il tempo di giustificarmi o di replicare. L'episodio si svolse tanto in fretta che rimasi a bocca aperta. Oh, sì! L’incrociai altre volte. Ma per timore che volassero tra noi parole grosse, giravo alla larga. 
 Un giorno però, che ero in compagnia del mio amico Toni Gussa, questo bravo figlio di … come la vide, con entusiasmo e pieno di complimenti le andò incontro. Dagli abbracci, non c’erano dubbi che si conoscessero piuttosto bene, e d’altra parte, lei era una gran bella gnocca (2) che non poteva essere ignorata dal mio Toni. Irritato da quella scena, mi ritirai dietro ai tavolini d’un bar, nonostante quel visone selvaggio mi avesse notato e avesse fatto un cenno sulla mia presenza a Toni, sempre troppo lento e lungo quando attaccava bottone. Nell’attesa, ogni tanto volgevo l’attenzione da qualche altra parte quando fui incuriosito dal fatto che Toni avesse sollevato il cagnolino, e se lo fosse portato davanti al naso facendoselo leccare. 
 Come Toni ritornò, lo assalii con un sacco d’improperi, e poi:
 - Ma cosa ti salta in mente? Non ci si può far leccare la faccia da un cane, e lo sai il perché? Quel caro cagnolino, oltre a leccarsi continuamente il culo, ha anche annusato quelli degli altri cani e, prima di pisciare, ha messo il naso su tutti gli angoli delle vie. D’ora in poi, stammi alla larga e per cortesia non far accenni neanche per scherzo a un abbraccio oppure tentare di offrirmi un assaggio dal tuo bicchiere? … Hai capito? 
 - Ma sai chi è quella? - cercando di cavarsela.
 - Certo che lo so! … È una cretina che concia il suo cane in quel modo.
 - No, è l’amante di … ed è una donna bellissima. Ma non ho capito perché ce l’hai tanto con quel povero cagnolino? È un cane lecchino, li chiamano cani da salotto, ma sono cani lecchini.
 - Ma tu l’hai preso in braccio? E ...
 - Per forza! Come avrei potuto sapere che alito poteva avere? E oggi, aveva proprio l’alito che sapeva di baccalà.
 - Scusa sai, sarò pure ignorante, ma i cani non mangiano pesce.
 - Questo lo so. Ma ti ho detto che è un cane lecchino, e che oggi deve aver leccato qualcosa che sa di baccalà, perché due son le cose che sanno di baccalà.



 N. B. Eh, sì! il mio Toni la sapeva lunga. 



  (1)   Prostituta.
  (2)   Donna bella.

 

 

 

venerdì 6 febbraio 2015

LOQUE


  Rare le volte a cui non ho risposto a offese o a basse insinuazioni. E non ne sono pentito. Se mi fossi difeso, nella maggior parte dei casi, non avrei ottenuto alcun vantaggio oltre allo sfogo.
 Spesso poi, non sappiamo toglierci con disinvoltura da alcune situazioni imbarazzanti, a volte, addirittura le peggioriamo. Ora vi racconterò un episodio che si risolse, per mia fortuna, nel migliore dei modi.
 Negli anni Sessanta, trascorrevo le vacanze estive per lo più sulla Riviera Romagnola. Poco mare e molta vita notturna. E di notte, se non trovavo prede in qualche locale traslocavo in altri, sempre alla caccia di selvaggina. Solo all'alba m'arrendevo.
  Era stata una serata nata storta. Sia a me che al mio amico era andata proprio male. Nessuna!Neppure uno scorfano aveva abboccato. Ed era già passata da un bel po’ la mezzanotte. Fuori dal terzo locale, il mio amico, un baldo e belloccio piacentino che lavorava nell’azienda di trasporti di suo padre, bloccò due biondine e le convinse a unirsi a noi per fare un salto in un night di Gabbice Monte.
 Salii dietro alla sua Seicento con una delle due. Portava una gonna corta e mostrava due cosciotti come quelli dei Tre Porcellini. Come un lupo mannaro non ressi e allungai le mani, lei mi respinse. Andai ancora all’attacco. Il mio amico non aveva ancora innestata la terza che la mia vicina rivolgendosi all’amica davanti:
 - Loque el comincia a stricher! (1) 
Probabilmente l'ultima parola  non l'avevo afferrata bene o l'avevo travisata, fatto sta che mi rivolsi al mio amico in questi termini:
 - Beh, hai sentito bene?... Abbiamo raccolto due orfanelle che parlano in Latino:  quoque, cuiusque, cuius quique. Non è facile raccogliere al giorno d’oggi due belle ragazze che parlano in Latino. Forse son state educate in qualche orfanatrofio vecchia maniera.
 L’amico alla guida senza voltarsi:
 - Ma va là, scemo!... Sono bolognesi, e alla sua amica ha detto: “ Lui qui comincia a stringere”.
 Tutti e tre scoppiarono a ridere, mentre io, da mona (2), mi ritirai come una lumaca senza proferir parola. Chiuso in me stesso e con il morale a terra non avevo la forza di reagire. Ero nero per non aver avuto la solidarietà di quel mio compagno stagionale. In macchina, questi tre menefreghisti cantavano a squarciagola accompagnandosi alle canzoni trasmesse dalla radio. Non mi era mai capitato d'essere così giù di corda. Non solo non avevo risposto al mio compagno, ma anche davanti alla ragazza m'ero arreso. Di solito, a un rifiuto reagivo anche aggressivamente con parole pronte. 
 All’ingresso della sala da ballo, le ragazze invece di lasciarci, presero sottobraccio il mio amico e s’accomodarono a un tavolino. Infelice e disperata situazione! Veramente insopportabile. Per non dar sfogo a ciò che avevo sulla punta della lingua, giravo a vuoto attorno alla pista sperando che qualche anima buona mi raccogliesse. Mi rifiutavo di portare il moccolo per tutta la serata.
 Durante la sosta della musica fui costretto però a raggiungerli. Per forza: m'aspettava la mia birra.
 Me ne stavo muto, discosto da loro, e cercavo di vedere se in sala ci fosse qualche ragazza libera, fosse pure brutta come la fame. Cercavo di distrarmi pensando alle tre leggi della Dinamica del grande Isacco. Le ripassavo in Latino, come del resto le aveva formulate; visto poi che questa nostra antica lingua era la causa delle mie pene. La terza, che si riferiva all'azione, mi suggeriva di reagire. Ormai era troppo tardi. Certe cose o si fanno subito o è meglio lasciarle perdere. Non mi restava altro che masticar rabbia.
 Ma come la musica riprese, la ragazza dai bei cosciotti mi s'avvicinò, e in tono dolce e amichevole:
 - Dai! Non te la prendere, sei anche un bravo ragazzo …  Sù, andiamo a ballare!
 Una brezza notturna e la musica invogliavano all'amplesso, si ballava a guancia a guancia. E poi dicono di non aspettarsi mai che l'iniziativa possa partire dall'altro! Sentite la sorpresa.
 - Non ti piaccio più perché non parlo il Latino?
 E prima che potessi rispondere, con un bacio mi sfiorò le labbra. 
 Che vacanze! Quelle sì, che furono vacanze!


 (1)   Lui qui comincia a stringere.
 (2)   Vagina. In questo caso stupido.


 

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venerdì 23 gennaio 2015

SALVATO IN CALCIO D'ANGOLO


 
 Dopo un paio d'anni dalla morte di mio padre, si vendette il negozio di tabaccheria. Mio fratello e mamma s'impegnarono a condurre il negozio d'ottica, mentre io, nonostante avessi superato solo il biennio d'ingegneria, ottenni la cattedra completa d'insegnante in Matematica e Fisica presso l'Istituto Tecnico per Ragionieri e Geometri  della mia città.
 Possedevo una 500 e un Moby: un ciclomotore francese leggermente più piccolo del nostro Ciao che faceva sbavare le ragazze e i ragazzi di quel periodo. Godevo dello stipendio, delle mance di mia madre e, pur non essendo una meraviglia, dell’ammirazione e della simpatia di qualche bella fanciulla. L’unico cruccio erano un paio di classi femminili dell’Istituto di Ragioneria. Oh, ma non mettiamola giù troppo dura! C’era anche da divertirsi, con le mani a posto, s’intende. 
 Vi ricordo che per insegnanti, tutori e chi può esercitare una qualche influenza sulle minori, la legge maggiora di due anni l’età di questa area protetta. Non che fossi preoccupato per questo. Dovevo  star piuttosto attento a che non mi sfuggissero parole fuori luogo e a difendermi dalle malizie delle mie giovani allieve. Alcune erano ancora bambine, la maggior parte, uscite dalla pubertà, erano già donne fatte, e quindi più difficili da gestire.
 Problemi mestruali, innamoramenti quotidiani, vestiti alla moda e fanatismo per i Beatles erano gli argomenti preferiti. Fin qui nulla di male. Più grave era il fatto che alcune non volessero indossare il grembiule bianco da portare in classe: imbruttiva. E allora dovevo spiegare che il grembiule non serviva tanto a loro, quanto a me, per proteggermi da scollature e curve pericolose. E non vi dico quante volte buttavo gli occhi al soffitto per non indugiare su meravigliosi panorami inviolati che venivano dai primi banchi. Lo san bene le donne che sedute le gonne si accorciano, come pure lo sapevano le ragazzine, soprattutto a quei tempi quando non s'usavano ancora i jeans.
 Se non ne capitava una al giorno poco ci mancava. Ogni scusa era buona. Si rideva spesso, ma dovevo far attenzione a pesare bene ogni parola. La malizia era sempre alla porta. Pensate un po' che un giorno a una piccolina che faticava ad arrivare alla lavagna posta dietro alla cattedra, tra le risate venne dai banchi l'invito:
 - Ma dai, non far tanto la smorfiosa! Fatti prendere in braccio dal professore!
 L'episodio però che vi voglio raccontare si riferisce a un mio folgorante ripensamento e a una altrettanto fortunata e precipitosa marcia indietro.
 Un bel mattino, mentre tenevo una lezione di Matematica nella seconda classe di Ragioneria, non m'accorsi dell'ora tarda. Stava per scoccare la fine delle lezioni. Purtroppo non mi resi conto della stanchezza e svogliatezza delle mie allieve. Forse loro s'aspettavano già il suono della campanella, mentre io ero impegnato a finire in fretta un esercizio alla lavagna. Dopo aver scritto un paio di righe, mi voltai per vedere se la classe mi seguiva. Scorsi che l’allieva nel terzo banco della fila di mezzo stava giocando con i capelli di quella davanti. Cercava di arricciarli con una matita. Ritornai a scrivere, ma voltandomi  di nuovo la trovai che si divertiva ancora. I nostri occhi s’incrociarono, con un gesto e con una smorfia le feci intendere di smettere e di prestare più attenzione.
 Alla terza volta m’infiammai e la rabbia mi fece perdere i lumi. Spezzai il gesso e a vene ingrossate:
 - Senti, ricciolina! La pianti di fare dei boccoli a quell’oca che hai davanti?... Eppure con un brutta occhiata ti avevo già colta sul fatto. – e gonfiando ancor più le gote e scandendo bene  le parole – Hai una pallida idea dove ti posso ficcare quella maledetta matita?
 Ottenni un silenzio che non avevo mai avuto. E davanti a occhi sgranati: 
 - Te la ficco nel … nel naso! - pronunciando quell'ultima parola come fosse la fine d'un rantolo.
 Ancora un attimo di sorpresa e, subito dopo, dall’ultimo banco venne il primo applauso.

 

 

martedì 20 gennaio 2015

AVEVO BUCATO UNA GOMMA


  A volte, capita d’inciampare in qualche spiacevole malinteso oppure di commettere delle gaffe talmente grossolane che non è possibile far marcia indietro. A quelli come me e che per lavoro sono costretti a darla d’intendere al pubblico succede purtroppo con una certa frequenza.
 Ma non voglio annoiarvi con le tristi figuracce che ho fatto in negozio o con amici, preferisco ricordare vecchi episodi della mia gioventù, prima che finiscano nel dimenticatoio. 
 Questa è un a delle mie celebri gaffe: una di quelle spaventose, e che non si dimenticano tanto in fretta.
 In una piccola città di sessantamila abitanti, le feste danzanti promosse da associazioni benefiche o da circoli privati si contano sulle punte delle dita. Avrei fatto carte false per poter partecipare a quella festa.
 Sì, che avevo delle amiche! Ma non avevano alcun interesse per uno come me, come del resto io non ne avevo per loro. Se avessero scelto un accompagnatore l’avrebbero cercato un po’ più figo del sottoscritto. Più che per vanto, per far invidia alle avversarie. Mi procurarono l’invito un mio amico e la sua ragazza.
 Il vecchio abito di società di mio padre, adattato a me, mi permetteva di partecipare a quell'evento. Feci disperare mia madre: comprai un paio di scarpe nuove, una cravatta e dei polsini. Andai perfino dal barbiere. Certo che c'era un motivo per tenerci così tanto: speravo di poter incontrare una ragazza che mi piaceva da morire.
 Arrivò finalmente il sospirato momento. Tirato a malta fina e tremante affrontai l’ingresso in sala.
Che aria brutta! c'erano tutti i cagoni della città.
 Nonostante conoscessi un po’ tutti quanti, la maggior parte m’ignorò; solo alcuni genitori di qualche amico e un paio di clienti dei nostri negozi mi sorrisero o mi strinsero la mano. Non per cortesia o simpatia, ma perché conoscevano le proprietà della famiglia. Per una volta ancora, quella merda di denaro era motivo di divisione tra gli uomini.
 Cercai la ragazza, ma non la trovai. Ero arrivato un po' troppo presto. Dopo qualche giro nelle due sale, m’incontrai con una ventenne che lasciava la pista alla fine d’un ballo. L’invitai e lei accettò. Non mi sembrava vero che a un ballo di società mi stavo conquistando una bella biondina di provincia.
 Dopo quattro balli di fila, chiacchierando ci recammo al buffet. Si parlava di Milano e della Facoltà di Filosofia dove lei era iscritta al secondo anno.
 Capelli a caschetto, fronte spaziosa, occhi verdi-azzurri, labbra sottili, un bel sorriso, seni piccoli e gambe diritte. Con una voce limpida e penetrante, mi spiegava la sua passione per il cinema. La lasciavo parlare, pensando a come affrontarla e al tempo che avrei impiegato a saltarle addosso. Eh, sì! lei aveva ballato con me senza mettere le mani aperte davanti ai seni a mo’ di protezione come s’usava allora; anzi, se li era strofinati. Ballando poi a guancia a guancia, non mi era sfuggita qualche piacevole stretta.
 Mentre ero in sosta al buffet, qualche amico, passandomi accanto, come saluto mi faceva l’occhiolino come per dirmi: “ T’è andata bene, eh?”
 Oltre agli amici, fui vittima delle attenzioni d'una signora un po’ vistosa, bardata a festa, con un sparato sul davanti e un fondo schiena da far venire l’acquolina in bocca a chi piace l’abbondanza. Non solo sguardi, ma mi lanciava anche qualche sorriso.
 Maledetta vanità! Sarebbe stato meglio morsicarla la lingua.
 Rivolgendomi alla mia futura preda:
  - Vedi quella vecchia baldracca?(1) Mi lancia inviti con dei sorrisi e delle occhiate concupiscenti, lei vorrebbe che …
  - Ma cosa stai dicendo? Quella signora è mia madre … Ma cosa ti sei messo in testa? Sorride perché si compiace che anch’io ho qualcuno che mi corteggia.
 Che tonfo! A terra, per aver bucato una gomma, senza la possibilità di rialzarmi. 
 

    (1) Prostituta.



sabato 10 gennaio 2015

SONO LE PEGGIORI


                                                                                             Maschi d’una certa età, sù con le ’rece! (1)

  Se le giovanili femmine, dai sessant’anni in su, vi fanno delle avances, non prendetele troppo sul serio.
 Sono delle mistificatrici, addirittura delle bugiarde nate, che lo fanno esclusivamente per vanità. Vogliono sapere se sono ancora attraenti più che voglia di far sesso. Ma se vi capita qualcuna che fa sul serio, mi raccomando: non perdonategliela! Rammentatevi il vecchio detto dei vostri padri : “ Ogni lasciata è persa”.
 Per avvalorare questa mia tesi, mi permisi un giorno d’invitare a bere un caffè una mia cliente che si vanta  d’essere, e purtroppo lo è di professione, una psicologa. L’avevo invitata non tanto per sperimentare su di lei il mio irresistibile fascino, ma perché volevo conoscere in modo diretto e più specifico la sua opinione su questo modo di comportarsi di alcune non più giovani signore nei nostri confronti.
 Sul metro e sessanta, segalina, con poco seno e sempre in calzoni, porta capelli lunghi raccolti in varie fogge e, sebbene si  atteggi a ragazzina, ha purtroppo un collo impietoso che ne rivela l’età. Nei miei confronti ha sempre  avuto atteggiamenti di stima esagerata, per non dire di sfacciata adulazione. Vi riporto esattamente le sue parole:
 - Oh, dottore! Come la trovo bene … - oppure – Lei che è un poeta … - a volte anche – Già, dimenticavo che lei è un intellettuale e al tempo stesso un uomo di scienza … - e tante menate del genere di cui provo ancora vergogna.
 Come vi ho già detto, un bel giorno commisi l’errore di chiamarla al citofono e invitarla a prendere un caffè.
 - Oh, dottore! Mi coglie in un momento che sono molto impegnata, in ogni caso, tra qualche minuto sarò da lei.
 Abitando in un palazzo che s’affaccia su Piazza Delle Erbe, ci recammo in uno dei tanti bar che danno vita alla piazza. Durante il breve tragitto, mi raccontò d’aver lasciato a casa il marito, quando di marito non ne avevo mai sentito parlare, e che lei, nonostante  la sua età, riceveva ancora inviti e complimenti dagli uomini.
 Seduti a un tavolino, cominciò a imbambolarmi con le sue chiacchiere. Iniziò a raccontarmi che faceva di frequente sesso sfrenato, che frequentava piscine e palestre, e che, oltre a essere innamorata del suo lavoro, aveva una gran passione per le gare di Tango. Era più matta di quanto la facessi. E poi forse... e senza tanti forse, lei credeva che ci provassi.
 Che fare? Mica potevo dirle che l’avevo invitata per ricevere un parere professionale senza tirar fuori il becco d’un quattrino. L’avrei umiliata sia come professionista che come donna. E che smacco poi dirle che non aveva capito un bel niente e che non intendevo farle la corte! Non mi rimaneva altra via che starmene zitto, fingendo  che lei credesse che m’era andata buca. Rammentai che non si deve mai dare dello stupido a qualcuno. Lo stupido non ammetterà mai d’essere uno sciocco, penserà che siete voi lo stupido.
 Con tutta la voglia che avevo di venir via, cercavo di non ascoltarla e di non piegar troppo la testa. Ero poi impegnato a squadrarla per capirne che doti avesse per sentirsi ancora così attraente. Con il culo piatto da sedentaria, senza tette, senza trucco e con un color di pelle da legume simile al “pomme de terre”, cosa poteva aver di stuzzicante oltre a quei quattro peli? Eppure, forse anche lei aveva qualcuno che se la sarebbe fatta.
 Per scacciare la voglia di risponderle a tono, pensavo a tutte le donne vedove che raccontano che sono disperate avendo avuto un uomo meraviglioso, alle separate che sparlano del vecchio marito giurando d'essere state vittime d’un delinquente. E purtroppo son tutte così. Non se ne sbaglia una!
 Dicono che il tempo oltre a essere galantuomo è anche relativo, sarà, ma a volte non passa mai. Con il cervello in ebollizione, alle vedove e alle separate associavo questa razza ancor più perversa, che ci stuzzica e poi non si concede. Che brutta razza! Le loro allusioni, le loro smorfie e le loro moine hanno uno scopo solo: quello di trarci in inganno. Posano e recitano come le migliori attrici. False, bugiarde, imbroglione, ipocrite e poi e poi ... Non dimenticate che giocherellano sui qui pro quo, e che ci incantano con il bagliore e il languore dei loro occhi. E per infinocchiarci meglio, si lasciano andare a confidenze di questo tipo. 
  - Sei più d'un amico! - oppure - Abbiamo molto in comune noi due.
 Vittima delle loro arti e per golosità, l'uomo ci casca e si fa avanti, e loro gli tappano la bocca con un secco rifiuto, spesso umiliandolo. Brutte schifose! Per non dir qualcosa di peggio.
 Per pagare il conto, il cameriere non arrivava mai. Finalmente! ci lasciammo promettendo che ci saremmo rivisti (e non so neanche il perché) in altre occasioni e senza tanta fretta.
 Qualche volta la rivedo, e v'assicuro che non è facile mandar giù veleno e non poterlo sputare!

 

  1. Orecchie.