sabato 30 novembre 2013

FELLATIO IN ORE


  Questi modesti racconti mi son venuti in mente e li ho scritti nell’ordine (o nel disordine) in cui li ho pubblicati.
 Lasciatemi respirare un attimo e aver tempo di metterci mano per rimpolparli e abbellirli. Cercherò di condirli con qualche pizzico di sale e pepe in più, anche se, per quel che ne so, è necessario che il cibo sia già di qualità. In un tempo successivo tenterò di riordinarli. Lo devo, oltre ai miei lettori, per onorare Google che ogni tanto mi  riserva sul mio blog “ enzo-monti. blogspot. com” una pagina intera. Dopo quest’ultimo racconto, ne metterò in rete un paio, scritti negli anni Ottanta e mai pubblicati. Ascolterò volentieri critiche e commenti da parte vostra.
 

FELLATIO IN ORE (1) 

  Ahi, ahi! Su Facebook se ne vedono delle belle!
 Pochi giorni fa, mi capitò di vedere una scuola di sesso orale. Beh, non credevo ai miei occhi! Nella fotografia era ritratta una tavolata di fanciulle golose impegnate a ciucciare falli di gomma. Mi sarebbe piaciuto vedere in azione l'insegnante, ma purtroppo non l'hanno mostrata.
 Chiesi a Matteo, il nostro aiutante, se avesse preso una botta in testa per pubblicare roba del genere. Cadde dalle nuvole. In effetti, al controllo che feci poco dopo, era stato il suo amico Samuele che gli aveva inviato un link in cui affermava che a Matteo piaceva quella pubblicazione.
 Suggerito da questo episodio, mi ritornano in mente un paio di fatti più che piacevoli. Già la penna freme e li vuole descrivere ... in che modo? Né più né meno di come li ho vissuti: è naturale!
 Verso le ventitré di tanti anni fa, me ne tornavo a casa dopo aver giocato al circolo un paio di partite a scacchi quando, passando davanti al bar di Sinico in Via Leoni, intravidi un paio di amici che felicemente brindavano. Non avevo bisogno d'inviti. Entrai e partecipai alla loro gioia. Se avessi tirato dritto mi sarei perso una serata memorabile.
 Nella mia lunga carriera di bevitore non mi era mai capitato di brindare a una sconfitta. Eppure, quella notte festeggiai e brindai a un pompino(1) non portato a termine.
 Beh, che c'è? Dov'è la volgarità o lo scandalo se chiamo questo atto con un termine che usiamo comunemente? Forse potevo scrivere qualche spiritoso eufemismo oppure qualche sofisticata metafora invece di pompino? Ma l'avrebbero capita tutti? Lasciamo quindi ai bigotti e ai bacchettoni sputar le loro infelici sentenze e tiriamo avanti.
 Otello e il suo inseparabile amico Polpa, passando da un bar all’altro, avevano incontrato una comune amica. Di quella signora, sposata con un becco più vecchio di lei, ne ho scordato il nome. Potrei rintracciare un paio di amici che forse se lo ricordano ancora, ma sono talmente pettegoli e vigliacchi che il giorno dopo lo saprebbe tutta Verona. Chiameremo Fernanda questa cara signora.  Sotto il metro e settanta, snella, rossiccia, dal viso scarno e rugoso, dalle gambe ben fatte, portava tutti i sintomi in cui si riconosce una donna sensuale. Di lei ho un bellissimo ricordo, e ne rammento anche alcuni comportamenti singolari.
 Quando veniva in compagnia, metteva gonne con lunghi spacchi che arrivavano all'inguine, vantandosi poi di non portar mutande e pronta all’uso. Al ballerino s’avvolgeva come una serpe, come se ballasse la Lambada. Che meraviglia! E che piacere per il nostro affare!(2) Credo che la si potesse definire una ninfomane. Non vedo altri termini o giustificazione per appagare quella sua fame di sesso. 
 Otello era allora un ultra sessantenne in pensione, mentre Polpa era più giovane d’una decina d’anni.  Dopo che i tre ebbero bevuto un paio di goti e mangiato qualche bocconcino, i miei amici, pieni come uova ma da veri cavalieri, si offrirono di dare un passaggio in macchina alla signora. Alla guida il Polpa, sui sedili posteriori Otello e Fernanda, pronta per fare un servizio al suo e nostro amico.
 Per quarantadue kilometri andarono in giro per la città senza alcun profitto. Esausti, la portarono a casa. Raccontavano inoltre che ci fu un attimo di panico per una brusca frenata dovendo evitare un cretino che aveva tagliato la strada. Ci mancava che Otello rimanesse monco! Ebbri, ridevano e bevevano: ridevano come matti più per lo scampato pericolo che per lo sconforto d'aver fatto cilecca. Che serata fantastica!
 Di tutt’altra musica è l’episodio che segue.
 Prima degli anni Ottanta, tra il mio negozio e quello degli arrotini, ne esisteva uno piccolo di profumeria la cui proprietaria era una certa Raffaella. Una botticella mora che, nonostante avesse superato i cinquanta, millantava d’essere corteggiata da tanti uomini, mentre nella realtà era un’angosciante zitella dalla voce squillante e che da giovane aveva studiato canto, tant’è vero che veniva soprannominata La Turandot.
 Un bel giorno, al bar di fronte ai nostri negozi e gestito da Armando, manifestando i suoi timori si vantava d’essere seguita di sera da un timido ammiratore. Ascoltava le sue lamentele Alice che, incuriosita, s’intromise nel discorso chiedendo:
 - Mi scusi:  ma su quale marciapiede l’insegue quell’uomo?... Perché?... Ma io l'invoglierei, e a forza d’andar avanti e indietro, ci lascerei un solco su quel marciapiede.
 Alice, di qualche anno più vecchia, più o meno grassa e bassa come Raffaella, portava capelli biondi ossigenati ed era orba come uno scopeton (3). Mia cliente e miope attorno alle undici diottrie: il che vuol dire che, senza occhiali e con quel grosso difetto di vista, dopo dieci centimetri dal naso non vedeva più nulla. E, come se non bastasse, a quei tempi gli occhiali erano veramente orribili, pesanti, con lenti spesse e, oltre a intristire, non gli permettevano di truccarsi in modo decente, tant'è vero che s'imbrattava in modo orribile. Per concludere: era brutta come la fame e contro ogni tentazione. Tuttavia, aveva condotto al cimitero un paio di mariti e il suo ultimo compagno.
 Una mattina, all’orario d'apertura del negozio, ero al bar, sempre quello di fronte ai nostri negozi, a gustarmi il primo caffè quando entrò Alice. Dietro al banco Armando e sua moglie Gemma, in fondo al locale un uomo in piedi che leggeva il giornale, Alice chiese ai coniugi:
 - Fatemi un buon caffè! Aggiustatemi la bocca perché ho una mascella fuori posto per averlo ciucciato iersera per più d’un’ora.
 Un gelo polare avvolse l’ambiente. Armando si voltò; Gemma sgranò tanto d'occhi vergognosamente stupita di quella uscita; volò solo il fruscio d’un giornale incuriosito che s'abbassava. Ruppi quel silenzio da tomba con:
 - Ma Alice, cosa ha succhiato? 
 Fessurando gli occhi come fanno i miopi:
  - Monti, non fassa tanto el furbo!(4) L’ha capì benissimo.
 Altro silenzio imbarazzante.
 D'accordo che lo stupore è dello sciocco, ma davanti a certe sorprese sia un'intelligenza feconda che una fantasia fertile non arrivano a prevedere ciò che può succedere ancora. Infatti, non era finita. Ne arrivò una ancor più grossa e mai sentita così grassa pronunciata da una donna.
 Forse uno sfogo, oppure una semplice constatazione, addirittura il rimpianto dei bei tempi passati, chi lo sa; sta di fatto che sentimmo tutti chiaramente:
  - Sarà pran brutto el vostro mestier … in compenso, el  gha de belo che l’è saporito! (5)

  

(1)    Sesso orale.
(2)    Pene.
(3)    Un tipo di sardina.
(4)    Faccia tanto il furbo.
(5)    Sarà gran brutto il vostro pene … in compenso, ha di bello che è saporito!

 

lunedì 25 novembre 2013

IL FIUTO DELLE DONNE

  Non c'è dubbio che  le donne abbiano maggior fiuto di noi maschi nelle faccende d’amore.
 Al giorno d'oggi, le donne poi sono più istruite, meno inibite, più coraggiose, più sfacciate e anche più... di quelle d'una volta, avendo cancellato dalle loro guance le sfumature di rosso. Facciamo quindi più fatica a intuire ciò che hanno nelle loro belle testoline.
 Anni fa, mi trovavo a cena con la mia compagnia presso il ristorante del Caffè Dante; oltre a qualche coppia di amici, sedevano alla mia stessa tavolata un gruppo di commensali a me sconosciuti, nonostante fossero amici di alcuni di noi. Tra questi, spiccava un’avvenente signora che, da ciò che raccontava il mio vicino di tavolo, doveva essere arrivata senza un compagno, come s’usa dire oggigiorno. Dallo stesso pettegolo appresi poi che la signora era una separata. E il mio appetito crebbe.
 Pur non essendo una meraviglia d'uomo, mi fu facile agganciarla. Del resto, non avevo concorrenza, oltre a essere tutti più vecchi, erano, come lo sono tutti i miei amici: delle "ossa da morto". Non disdegnò i miei complimenti, anzi, stava al gioco. Mi feci avanti e mi appartai con lei un paio di volte soffermandomi al banco del bar. Alla terza volta, arrivò mia moglie che, dall’ingresso tra la sala del ristorante e il bar, mi fece un cenno per avvisarmi che la portata era arrivata in tavola.
 M’ero appena seduto quando da dietro arrivò una comune amica, appoggiò una mano sulla mia spalla e l’altra su quella di mia moglie, chinò il capo, e con l’atteggiamento di chi ti vuol fare una confidenza:
 - Caro Monti, ti faccio i miei complimenti: hai una moglie veramente intelligente: ti fa credere d’essere libero perché ti dà spago, e tu non t’accorgi d’essere il suo aquilone. Lei ti lascia andare, allenta il filo e ti lascia andare, ma al momento opportuno dà un paio di colpi e ti tira giù.
 Teresa ringraziò con un sorriso; a me non rimase altro che grattarmi il capo e qualcos'altro.
 Posso liberamente dichiarare, senza tema di smentita, che mia moglie non è stata mai gelosa più di tanto; mentre come cane da guardia avevo mia madre. Un vero mastino con le orecchie sempre ritte. 
 Dopo sposato, per il mio bene e per evitarmi grossi guai, s’intrometteva sfacciatamente usando  queste stesse parole:
 - È sposato felicemente con una gran bella signora e ha dei bambini bellissimi,- e, a seconda dei tempi e delle occasioni, li elencava.
 Detestava la Luigina, una mia cliente emiliana, separata, belloccia, di qualche anno più vecchia che, alla mia richiesta per cosa le servissero gli occhiali, la sentì dire:
 - I me serve per contarme i pei, (2) - senza ritegno e con l’aria di prendermi in giro.
 E la Luigina deve averne sentite quattro, per il semplice motivo che non entrava più in negozio, se c’era mia madre.
 Quando poi arrivava Dora, cambiava colore e se non diventava viola poco ci mancava. Questa ragazza  bellissima e dagli atteggiamenti provocanti indossava quasi sempre camicette scollate, trasparenti e senza reggiseno come imponeva a quel tempo la moda. Con il volto alterato e con gli occhi fuori dalle orbite, mia madre mi si parava davanti nascondendomela; poi, con il cipiglio da comandante in capo, mi ordinava:
 - Hanno telefonato che ti aspettano  in banca, -  e io dovevo obbedire. E secondo voi, che altro potevo fare?
 Eh sì! le donne vedono molto più lontano di noi maschi. E non solo. Fiutano il pericolo ancor prima che si presenti. E mia madre lo possedeva in larga misura. Su questo argomento, mi piace ricordare ciò che accadde alla fine degli anni Cinquanta, quando la Merlin chiuse le famose case. Arrivò in tabaccheria, quella all’angolo di Via Volturno a Cremona, una di quelle signore che erano state sfrattate. Comprava le sigarette e se ne accendeva una, sfacciatamente si sedeva poi sul tavolino dove la gente sostava qualche attimo per scrivere cartoline o attaccare francobolli. Non contenta, accavallava poi le gambe mettendole in bella mostra. Mia madre ingoiò la sua presenza per un paio di settimane, e pur sapendo che avrebbe perso la cliente, un bel giorno esplose.
 - Signorina cara, non so se lei vuol catturare i miei figli o mio marito. Qui lei non può parcheggiare, l’unico posto in cui può andare a fumarsi la sigaretta sarebbe in strada o, se meglio crede, sul viale.
 Da quel momento, quel tipo di donne ascoltarono il consiglio di mia madre e andarono a battere sui viali.
 

 

(1)  Questo qui è capace d’andare solo a puttane.
(2)  Contarmi i peli.

 

 

giovedì 14 novembre 2013

GIOVANNA


  A Verona, all’uscita della breve via che unisce Piazza dei Signori con Piazza delle Erbe, proprio di fronte all’arco della Costa, si trovavano, fino a pochi anni fa, due banchi di frutta e verdura. Uno gestito dalla vecchia Concettina che, dopo aver venduto per anni selvaggina e uccellini, preparava e vendeva ultimamente fondi di carciofi, l’altro dalla nostra Giovanna.
 Piccola di statura, bionda, muso da volpona, fianchi grandi, con il modo di fare della popolana, ma con il cuore sensibile e generoso della signora, era la regina incontrastata della piazza.
 Possedeva ironia e umorismo così pungenti da lasciarci di stucco. Le sue battute, tra le più folgoranti che abbia sentito, pur viaggiando sempre sulla stessa linea risultavano davvero tremende. Ancora adesso, anche se son passati più d’una decina d’anni da quando ha venduto il banco ed è andata in pensione, se chiedete informazioni nei bar che s’affacciano sulla piazza, oltre a magnificarla, vi diranno che le sue espressioni, spiritose e coloratissime, rispettavano l'aria popolare della piazza.
 Comincerò con l'incontro di cui sono stato testimone.
 Negli anni Novanta, mi trovavo al banco del Caffè Dante in Piazza dei Signori con lei, Toni, i coniugi Cavalca che gustavamo prima delle tredici il nostro bianchetto, quando dall’ingresso di Via delle Fogge entrò Alberto Sordi. Vista l’allegra compagnia si fermò a salutarci.
  - El me scusa, salo, ma fasso l’ortolana e gho le mani sporche(1), - e si pulì le mani nel grembiule, prima di stringergliele.
 Al nostro Albertone non parve vero. Oltre a rallegrarsi di questo incontro, confessò che la propria madre era anch’ella un’ortolana, e si mise a raccontare, da comico consumato, alcuni episodi divertenti. Ahi, ahi! povera memoria. Mi dispiace non saperne citarne almeno uno. Ricordo solo che per ben venti minuti rimase con noi, e che per ben due volte vennero i camerieri a richiamarlo perché atteso nella sala principale del ristorante. Il bello fu che le sue attenzioni furono solo per Giovanna. 
 Per assistere al passaggio della Regina Madre d’Inghilterra, con Luciano Pelizzari fui ospite d’una amica di questo pittore sulla più bella terrazza di Casa Mazzanti, quella che s'affaccia su Piazza delle Erbe, posta proprio sopra al Volto Barbaro. Oltre a goderci lo splendido panorama della piazza, ci gustammo la passeggiata di questa quasi centenaria regina che, vestita con un soprabito rosa e con un cappellino con i fiori, avrebbe richiamato la stessa curiosità, senza bisogno d'essre protetta da transenne e da guardie del corpo. La regina, che probabilmente non aveva mai fatto in vita sua la spesa, curiosò al banco della Giovanna, e l’ortolana su un fazzoletto di carta le offrì un persego(2). Arrivarono le guardie della vigilanza e la regina si ritirò, di sicuro con l'acquolina in bocca.
 Ben diverso fu un altro incontro. Per il tempo e per il cassetto era stata una gran brutta giornata di fine ottobre, quando verso sera giunse una modesta signora sulla sessantina davanti al banco che ammirava la sua frutta. Dietro di lei due uomini in abito scuro che s'erano fermati nello steso istante a curiosare, e a cui lei non diede bada. 
 A quella povera diavola le offrì un racimolo.
 - Lo prenda! l’ho appena lavata. Sentirà com’è dolce.
 La mattina del giorno dopo, si trovava al bar Filippini che si gustava la brioche con il cappuccino, quando arrivò di corsa una sua vicina di banco:
 - Giovanna, ghè to marì al banco chel te vol, e ghè anca du omeni che i te cerca(3).
 Dopo aver ingoiato il resto della brioche e inciampato in un paio di sedie ai tavoli del plateatico, come vide i due uomini in abito scuro pensò subito “Oddio! La Finanza.”
 Con la tremarella si presentò a quei signori che le consegnarono una busta e, dopo un cenno di saluto, se ne andarono. Riavutasi dalla la sorpresa, ancora tremante aprì la busta: conteneva un elegante biglietto con scritto: “ Susanna Agnelli, commossa, ringrazia”.
E lei pensò: ”Casso, la potea lassarme pagà almen un cafè, ma non per l’ua, ma per el spavent che l’ha m’ha fato ciapar”(4).
 Nel mondo però, non tutti la pensano allo stesso modo. Si attirava le antipatie dei “piassaroti”(5)perché in più occasioni alla solita domanda di Giulio Andreotti che, di ritorno dalla Prefettura, si soffermava davanti al suo banco chiedendo:
 - Come va?
 - Bene! Onorevole, – rispondeva sempre.
 - Che casso ghe ne frega a lu, se la va mal o la va ben. -  incazzatissimi i suoi colleghi le dicevano: - Te ghè da dirghe che la va mal(6), se no, l’aumenta le tasse.
 Con la verdura e la frutta è facile fare delle allusioni e dire spiritosaggini. Con carote, finocchi, cetrioli, e poi ancora: pomi, maroni(7), prugne, banane, senza parlare poi del fico insieme alla sua gentil signora, la fantasia viaggia.
 Alla signora che le faceva notare che aveva i cetrioli molli:
 - Signora, averghene(8) a casa de quei moli lì.
 D’inverno, quando faceva freddo e le foglie delle verze s’increspavano, stropicciandosi le mani:
 - Siore, la verza bona ama il giaso come la frittola ama il casso(9).
  Ma non solo con frutta e verdura.
 Alla zingara che, cedendo a un’insistenza snervante, le aveva dato da leggere la mano, e che le aveva pronosticato che sarebbe arrivata una bella notizia:
 - Figurate se incò(10) me ne va  una giusta. Varda chi vien(11), - e indicò il marito in arrivo.
 Quando era più giovane, un giorno che s'era chinata a sistemare un cesto, le si avvicinò un vecchio che le si appoggiò; voltandosi, lo bruciò con:
  - Ma galo el portafoglio pien(12)?
 Non sempre le andava tutto liscio. Sul far del mezzogiorno, arrivò una volta una coppia di giapponesi. Alla signora, dagli occhi a mandorla, dal viso di luna piena e dal color di giada, che continuava a palpare le albicocche, si mise le mani sui fianchi e con la faccia inviperita:
 - Che la vaca che t’ha cagà, vedemo quando te la finisi de palparle(13).
 Alzando poi il braccio destro, con una mano sul fianco e con l'altra indicando il marito ch’era molto più vecchio e secco come un baccalà:
  - Varda, a forsa de palparlo, come te l’é ridoto quel povero can lì(14).
 La giapponesina alzò lo sguardo dal banco, e senza guardarsi attorno, prese per mano il marito e se ne andò.
 Mentre Giovanna tirava un respiro di sollievo, la moglie d’un noto avvocato che aveva assistito a tutta la scena:
 - Giovanna, questi giapponesi abitano qui a Verona da vent’ anni, e la signora capisce e parla bene anche il nostro dialetto.
 

(1)    Mi scusi, lo sa, faccio l’ortolana e ho le mani sporche.  
(2)    Pesca.
(3)    C’è al banco tuo marito che ti vuole, e ci sono anche due uomini che ti cercano.
(4)    Poteva lasciarmi pagato almeno un caffè, ma non per l’uva, ma per lo spavento che mi ha fatto prendere.
(5)    Uomini che lavorano in piazza.
(6)    Che cosa gliene importa a lui se va bene o va male. Gli devi dire che va male.
(7)  Castagne.
(8)  Averne.
(9)  La verza buona ama il ghiaccio come .
(10)  Oggi.
(11)  Guarda chi viene.
(12)  Ma ha il portafogli pieno?
(13)  Quella vacca che ti ha generato, vediamo quando la finisci di palpare.
(14)  Guarda a forza di palparlo, come l’hai ridotto quel povero cane lì.

martedì 5 novembre 2013

LA FESTA DELLE MATRICOLE


  Sfido i giovani d'oggi a riconoscere quale tra le nostre città è anche sede universitaria. 
 Prima degli anni Sessanta, saltava all’occhio che le bronzee statue equestri di alcune piazze  presentavano i sotto pancia dei cavalli così lustri che di più non si poteva. Tutto il merito andava alle matricole universitarie. Era una manutenzione ordinaria che si faceva in autunno all’inizio di ogni anno accademico.
 Visto che al giorno d'oggi queste feste non si fanno più, spenderò qualche parola.
 Ora mi vergogno un po', ma a Pavia, per merito o colpa di Roberto di Soresina, con il soprannome di Za firmavo i papiri e, nonostante fossi piccolo e avessi solo due bolli, essendo iscritto al secondo anno, incutevo terrore tra le matricole.
 Il papiro non era altro che un foglio da disegno su cui erano scritte, sotto forma di leggi, delle ignobili sconcezze; al tempo stesso, era pieno di disegni porno, raffiguranti giochi erotici, falli e vagine che sbordavano perfino dal foglio. E con più era ricco di oscenità, più era di pregio. Certo che era da tenersi lontano dai genitori, soprattutto se si era delle sante verginelle.
Con i ragazzi, bastava che il loro papiro, piegato in quattro parti e usato come lascia passare, fosse ben tenuto e ben disegnato perché apponessi gratuitamente anche la mia firma. Con le ragazze, ero d'altra pasta. Questo diverso comportamento non lo dovevo a un capriccio o a una particolare esigenza della mia natura perversa, ma a una forma di esibizionismo: volevo farmi bello agli occhi degli amici più vecchi.
 La prima ragazza che mi capitò tra le grinfie era un po' bruttina e, oltre all'amorfo aspetto, era vestita anche da educanda. Venne a consegnarsi con venti pacchetti di sigarette nel nostro covo: una vecchia pasticceria nei pressi della stazione ferroviaria. Purtroppo, non intendendosene o forse anche per risparmiare, non aveva capito che volevamo le Nazionali Esportazioni e non le semplici Nazionali. Il più vecchio dei miei amici mi ordinò:
 - Dobbiamo fare bella figura, dille qualcosa!
 Assumendo un’aria severa e cattiva:
 - Ehi, senti un po'!... Guardaci bene in faccia! Lo sai chi siamo?
 - Studenti più vecchi,- con un fil di voce.
 - E allora? Per quale motivo ci tratti da operai? - e alzando poi il tono - Ti sembriamo pezzenti che hanno bisogno per i nostri vizi di chiederti la carità?
 - No!
 - Non ho sentito bene!... Ripetilo!
 - No!
 -  Ahi, sei messa proprio male! ... Adesso, ritorni dal tabaccaio e ti fai cambiare queste schifezze con dieci pacchetti di Nazionali Esportazione e, per punizione, con altri dieci pacchetti di sigarette americane: Camel o Lucky Strike. E non fiatare!... Per noi maschietti. Hai capito? - e gridando a più non posso  - Va via!... Sparisci!
 Riuscii a spaventarla a morte: tremava tutta, poveretta! Che recitasse? Del resto, con lacrime o smorfie la loro arte è sempre quella di recitare.
 Le Feste delle matricole si svolgevano di solito in qualche osteria o trattoria a buon mercato, dove timidi studenti impauriti offrivano la cena e qualche pacchetto di sigarette a noi anziani in cambio del papiro. I ragazzi si assoggettavano a interrogatori o a processi, e subito dopo venivano condannati a pene che al giorno d’oggi e in alcuni casi, ohi, ohi.. si sentiva puzza di bullismo. Beh, non è mai morto nessuno, anche perché si calcava la mano solo con i più furbetti o con chi aveva la puzza sotto il naso. Troppo facile e da stupidi prendersela con i più deboli.
 Ai miei tempi, le ragazze, chiuse in cassa da genitori previdenti e per il fatto che dovevano studiare, avevano poco tempo da dedicare ai ragazzi. Erano in gran parte ancora vergini e inorridivano sentir parlare di sesso, pur sapendola lunga. Nonostante le nostre insistenze , non c'è mai stata qualcuna che avesse confessato d'averlo visto, preso in mano oppure solo sognato questo benedetto nostro membro.
 Non si badava tanto alle loro risposte. Le più cocciute e le più carine, in ogni caso, erano condannate a lustrare i sotto pancia di quei magnifici stalloni.
 Con i ragazzi, c’era poco da divertirsi, ma con le ragazze le battute e le risate sgorgavano cristalline come l’acqua da una fonte montana.
 - Va piano! è un oggetto delicato. Non così in fretta. In punta, mi raccomando! in punta! Così, brava! Più passione! Attenta! gli stai facendo una sega! (1)  - e si davano altri ordini e suggerimenti  che scandalizzavano le bigotte che passavano o sostavano nei paraggi.
 Rischiavamo grosso. C’era poi il pericolo che qualche ragazza, durante questo lavoro, scivolasse giù dal piedistallo con il pericolo di farsi del male.
Di quel periodo, ho un solo un rimpianto: quello di non essere stato presente all’interrogatorio della mia amica Elena.
 I miei compagni, sapendo che conoscevo fin dal liceo quella bella e simpatica ragazza, temevano che mi intromettessi e venissi in suo aiuto. A mia insaputa e con l’ inganno, in cinque o sei riuscirono a condurla nel loro appartamento.
 Dopo averla fatta accomodare su un divano, iniziarono con le prime domande. Secondo la ricostruzione fattami da Roberto e Tecchio, verso la fine si fecero prendere  dal gioco e calcarono la mano: pretesero che confessasse che si masturbava.
 Erano andati un po’ fuori dalle righe: abusi che al giorno d’oggi sarebbero da tribunale. 
 Da ciò che mi raccontarono, ogni volta che Elena negava, veniva spinta con violenza contro il divano. Dopo sette o otto volte che si sentiva ripetere : - Confessa!... Confessa! - Lei cedette.
 Ma non finì semplicemente in questo modo. Ad alta voce, un balengo le chiese ancora:
 - Con quale dito?
 Per timore di sbattere altre volte il capo contro lo schienale del divano e per mettere fine a quella  tortura, ingenuamente alzò il medio della mano destra. Esplose la gioia!
 Nella storia scritta o tramandata, non è mai successo che un dito sia stato baciato con più voluttà e contemporaneamente da così tante bocche. 

 

 (1)   Masturbazione maschile.