giovedì 12 settembre 2013

DINO


  Dino è stato il mio primo e unico amico d’infanzia.
 Se escludo alcuni mesi per adempiere ai miei impegni scolastici, sono cresciuto fino all'età di otto anni a Bosco Piazza, una frazione di Torricella Del Pizzo in provincia di Cremona. Una lingua di terra compresa tra il fiume Po e i suoi argini maestri. Terra sabbiosa e al tempo stesso fertile, ricca di prati, di campi di grano, di boschi di pioppi, e dove l'insistente monotono frinire delle cicale e il richiamo del cuculo rendevano ancor più noiose e insopportabili le calde ore estive.
 Allevato dai nonni e dagli zii in tempo di guerra, oltre a sollevare dalle fatiche mia madre impegnata nel lavoro e alla cura di mio fratello più piccolo, la campagna rappresentava il posto più sicuro di questo mondo. Questo era quello che credevano i miei, ignari dei pericoli che passavo frequentando Dino, visto che con lui ero sempre in guerra.
 In quel gruppo di case che formavano il Bosco c’era anche Mario che aveva la nostra età. Nonostante si giocasse anche con lui, i miei pensieri, le mie preoccupazioni, il mio cuore avevano un nome solo: Dino.
 Ero attaccato a lui come la lappola dei fossi. E non c'era una spiegazione perché questo avvenisse. Forse era il suo modo d'insegnarmi i segreti della campagna, oppure quello ruffiano di farsi perdonare solo con gli sguardi, proprio non lo saprei. Scusate se mi ripeto: aveva di bello quel  modo tutto suo di farsi perdonare.
 Ambedue biondi con la candela al naso, stessa altezza, anche se lui più vecchio quasi d'un anno, formavamo una coppia indissolubile. Nella bella stagione, in braghette e corpetto sbracciato, con la fionda che spuntava da dietro il taschino, a piedi nudi e sporchi come selvaggi si batteva la campagna in lungo e in largo. Perfino per fratelli ci scambiavano.
 Dino si accompagnava al suo Checco: una cornacchia ammaestrata a cui avevano tarpate le ali; io al mio bastone che mi serviva sia per andar a pascolare le oche di nonna e di zia Teresa che per difendermi da lui. Eh, sì! Dovevo tenerlo ben lontano perché di tanto in tanto ci si azzuffava, e purtroppo lui aveva sempre la meglio.
 Mentre rimanevo in città, lui non si staccava dalla campagna, e ogni volta che ritornavo mi aggiornava. Non solo, mi costringeva a seguirlo nelle sue imprese, se non obbedivo ai suoi ordini, diventava aggressivo, violento, e me le suonava. Mi considerava un po' come il suo servo, se non addirittura il suo schiavo.
 Si scavalcavano le siepi e si faceva man bassa negli orti dei vicini. Ci si arrampicava sugli alberi per arrivare ai nidi, a volte, erano piante altissime, e per due soldi di cacio come noi, erano talmente alte che, nello scendere, oltre al terrore, ero preso anche dalle vertigini. Quel che si faceva a quei poveri animali che ci capitavano tra le grinfie non è da raccontare. Ricordo che si scorazzava per la campagna in mezzo ai prati, nei boschi, sugli argini, sulle rive degli stagni e del fiume, strappando rosolacci, spiaccicando insetti e sguazzando nei fossi. Sempre fuori di casa e liberi come uccelli. Le prede si dividevano senza bisticciare; fatta eccezione il giorno che catturammo insieme un leprotto. Visto che non lo si poteva portare a giudizio di Re Salomone, senza darmi spiegazioni, se lo tenne. In lui conviveva generosità ed egoismo, e bastava poco perché passasse dall'amore all'odio. A giorni era così cattivo che anche le api lo sfuggivano: era l'unico tra noi ragazzini che s'avvicinava alle arnie.
 Eppure, di lui ricordo i fischi di quando richiamava la sua cornacchia, l'odore del suo sudore, le croste delle sue sbucciature, i calli delle sue mani, l'abilità nell'usare il temperino, d'infilare un lombrico nell'amo e nel riconoscere dalle uova il tipo d'uccello. Quanti rimpianti e quanta nostalgia dei profumi e dei sapori della terra dei miei nonni! E che dire delle nostre imprese? E di quel giorno?
 Di mattina, entrammo nella stalla di mio zio Gino per vedere il vitellino nato da una settimana. Non c’era nessuno, neppure Tacheli, il mezzadro dello zio. Come l’animale ci vide o ci sentì, sebbene fosse impastoiato, s'alzò dalla sua cuccia di paglia, felice di vederci. Aveva il pelo macchiato di marrone, due occhioni colmi di stupore e un musetto, nonostante fosse bagnato di muco, talmente delizioso e piacevole da attirare baci e carezze.
 Un paio di volte mamma mucca si voltò verso di noi richiamando il vitellino con dei muggiti, forse per avvisarlo che sarebbe caduto in mano a due monelli. Dopo averlo coccolato e accarezzato con dolcezza sul muso e sulla groppa, quella bestia del mio amico si slacciò i calzoncini e gli strofinò sul muso il suo pistolino(1). Chiamatela cattiva abitudine o brutto vizio, ma lui quell'arnese l'aveva sempre in mano. Ma non pensate male! Lo fece senza malizia. Non avevamo ancora l’età per immaginare ciò che le nostre ragazze ci avrebbero fatto nell’età adulta. Lo fece così, tanto per scherzare.
 Il vitello gli diede una linguata, Dino rideva divertito e glielo appoggiò sul muso una seconda volta. Il vitello che aveva mancato la preda la prima volta, prima di riprovare ad agguantarglielo, gli diede una testata in avanti come quando succhiava il latte dalla mammella di sua madre. Dino finì a terra. E allora fui io a ridere.
 Come si riebbe, crucciato e in tono di comando:
 - Adesso, lo devi fare anche tu.
 - Cos’è che devo fare?
 - Devi darglielo da leccare.
 - Ma neanche per sogno!
 - Ti manca forse il coraggio?
 - Non son mica scemo! Non vedi che t’ha dato una testata come dà alla tetta di sua madre prima di prenderne il capezzolo?
 - Ma che razza d’amico sei allora?
 - Uno che non vuol perdere il proprio pistolino(1).
 - Sbrigati! Lo devi fare anche tu,- avvicinandosi con fare minaccioso.
Il mio bastone quel giorno era alto quanto me ed era grosso come la metà d’un manico da scopa. Cercò di strapparmelo, lo respinsi e lo minacciai. Quella bestia non aveva paura neanche del diavolo. Fece qualche passo avanti, e allora alzai in alto il bastone. Mentre cercava ancora di assalirmi, gli sferrai una botta dall’alto in basso. Lo colpii alla spalla, avendo piegato in tempo il capo per evitare il colpo. Che fosse sbilanciato o scivolato non lo saprei, sta di fatto che per la seconda volta cadde a terra.
 Nel suo sguardo lampeggiarono sia l'odio che la vendetta. Stava per rialzarsi, quando lo minacciai:
- Se ti alzi, t’accoppo!
 E poi …  e poi me la diedi a gambe ancor più velocemente della volta che lui m’aveva rotto il mio schioppetto(2) e io avevo tramortito con una sassata il suo amato Checco.
Il giorno dopo, con accanto la sua fedele cornacchia, era davanti alle mie finestre come se niente fosse. Se non fosse venuto, sarei andato io da lui.




(1)    Pene di bambino.
(2)    Fucile da bambino.

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